Nell’edizione 2022 del dizionario Treccani si preannunciano novità importanti. Per la prima volta nella storia, un vocabolario italiano non privilegia il genere maschile ma trascrive le voci anche al femminile. Mai prima d’ora, infatti, sono state registrate le desinenze anche al femminile. Si troverà, quindi, la voce “bella, bello” o “gatta, gatto” a eccezione dei casi in cui è necessaria una distinzione specifica. Inoltre, essendo l’ordine alfabetico quello stabilito per la trascrizione delle parole, il genere femminile sarà scritto per primo.
Una piccolezza? Certo che no
Conseguenza importante di questa scelta è che anche i nomi verranno indicati sia al maschile che al femminile, e questo vale anche per le professioni. “Soldato” ma anche “soldata”, “medico” ma anche “medica”. L’universo linguistico si arricchisce di una novità importante, che ci avvicina alla creazione di un linguaggio più consapevole dei cambiamenti sociali che si stanno verificando. La nuova edizione non è semplicemente un aggiornamento di quella precedente, ma “lo specchio di un mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità di una visione della società”. Inoltre, “Questa organizzazione delle voci non crea assolutamente una difficoltà per chi consulta il vocabolario», ha spiegato Giuseppe Patota al «Corriere della Sera», «ma restituisce alle parole verità e realtà negate, cancellate per secoli”.
Molto più di una desinenza
Il linguaggio plasma la realtà in cui si vive e non usarlo in modo consapevole significa negare la realtà stessa. La scelta di Treccani potrebbe aiutare ad abbattere quella resistenza molto diffusa a declinare il nome delle professioni anche al femminile. È stato significativamente fatto notare che oltre a essere sbagliato sotto il profilo grammaticale (se esiste il nome al femminile perché non usarlo?), questo criterio riguardi solo certe professioni. La predominanza della desinenza maschile non ha mai coinvolto quelle professioni che storicamente sono attribuite a una manovalanza femminile. Le parole “ostetrico” o “infermiere” non sono mai state usate per riferirsi a una lavoratrice del sesso opposto, come è giusto che sia. Invece, parole come “ministro”, “assessore” e “direttore” vengono usate con una valenza generale. I fautori di questa tesi sottolineano come la desinenza maschile non sia più nobilitante di quella femminile e non concorra a valorizzare il prestigio della donna a cui si riferisce. Le parole non sono mai entità astratte ma rimandano a persone, cose e realtà concrete. Usare la lingua in modo corretto aiuta a pensare in modo più chiaro: se la società evolve è giusto che anche la lingua evolva con essa.
Una questione di cacofonia?
La nuova impostazione di Treccani è stata accolta tra polemiche e moti di avversione. Sono molti coloro che si sono levati in difesa della lingua dei “padri greci e latini” accusando un simile cambiamento di essere la rovina della lingua italiana. Ma le voci femminili, oltre a essere perfettamente corrette, hanno anche origini antichissime. Pensiamo all’“Orsù, dunque, avvocata nostra” del Salve Regina dove compare quella desinenza femminile che in molti oggi si rifiutano di usare. Ma se “avvocata” va bene nelle preghiere perché non può essere usata anche nelle aule di tribunali? O sui giornali? Questa la rimostranza di molti.
Molte delle polemiche, invece, hanno avuto come cavallo di battaglia la motivazione cacofonica. Anche in questo caso è stato fatto notare come la polemica venga rivolta maggiormente a un certo tipo di parole, e meno a quei neologismi inglesi che sono stati introdotti nella nostra lingua nonostante la corrispondente traduzione italiana (pensiamo al termine “brieffare” da brief, che sta per “incontrarsi”). Il più delle volte l’unico problema riguardo la musicalità della parola è la rarità con cui viene usata. Come ha spiegato Valeria Della Valle, direttrice della nuova edizione del vocabolario insieme a Giuseppe Patota, «se suonano male è solo perché sono usate poco».
Un problema molto più grande
Parlare del “problema delle professioni” significa aprire il vaso di Pandora: la narrazione delle donne all’interno del mondo del lavoro e per esempio di quello del giornalismo è complicata e delicata sotto molti aspetti. L’omissione dei cognomi e l’uso di categorie relazionali per descrivere una persona anche quando queste non sono necessariamente utili al fine della presentazione della persona stessa (“è madre di”, “è moglie di”) sono solo alcuni degli aspetti che vengono attenzionati come problematici e che secondo alcune scuole di pensiero dovrebbero essere rivisti quando si ha una donna come oggetto della propria narrazione.
Un esempio di cosa non bisogna fare
Sono molti coloro che si sono occupati della questione, denunciando la narrazione scorretta di cui, spesso, sono oggetto le donne nelle narrazioni giornalistiche, a volte anche in quelle di violenza. Tra i lavori più noti c’è quello di Michela Murgia, scrittrice, blogger e drammaturga da poco uscita con “Stai zitta”. Ogni domenica mattina Murgia, in collaborazione con ladonnaacaso, presenta sul proprio profilo Instagram la “rassegna sessista” di tutti gli articoli settimanali che si sono distinti per il loro sessismo e per la loro mancanza di tatto. L’iniziativa è giunta a termine domenica 18 settembre 2022 e ha avuto una durata di oltre cinquanta settimane per un totale di cinquanta rassegne, ma rimane d’esempio per un giornalismo più corretto e inclusivo.
Le ragioni di chi non sostiene la causa
Ma le opinioni di segno opposto non sono solo quelle di utenti casuali del web, che riversano la propria contrarietà sui social senza conoscere a fondo la linguistica italiana. Rispetto alla questione sono intervenuti anche molti intellettuali, primo tra tutti lo scrittore Andrea Benedetti, da poco uscito con “Così non schwa“. Nella sua opera Benedetti prende in considerazione i limiti di un linguaggio eccessivamente inclusivo e le conseguenze che un uso quotidiano dello stesso potrebbe comportare. La sua riflessione, in realtà, ha come tematica centrale l’introduzione della “schwa” nella lingua italiana, più che la normalizzazione delle desinenze femminili, ma citare la sua opinione può essere utile per proporre una riflessione più ampia sulla questione. Il rischio alla base della scelta di un linguaggio inclusivo potrebbe essere quello di creare un linguaggio paradossalmente meno inclusivo. L’introduzione di nuovi termini, infatti, potrebbe creare rendere la lingua impraticabile dai più. Come fa notare lo studioso Massimo Arcangeli, d’altro canto, l’uso della schwa rende la lettura molto più difficoltosa, quasi impossibile per chi soffre di dislessia.
Le difficoltà della schwa
Sono molti i linguisti che concordano sulle difficoltà tecniche della schwa, sia da un punto di vista della sua realizzazione pratica (come portarla a conoscenza di tutti?) sia dal punto di vista grammaticale. La linguista Roberta D’Alessandro ha fatto notare che: «Importare un genere in un angolo della lingua implica importarlo in tutto il sistema. Lo schwa non è parte del sistema, l’italiano ha un sistema binario per tutto». Una riflessione sulla lingua è lecita e costruttiva perché può a sviluppare nuove riflessioni sulla direzione che sta prendendo la nostra lingua. Per l’Accademia della Crusca, non si può ridurre il discorso linguistico ad un discorso ideologico: “Non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la linguaal servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti.
E quindi?
È ovvio che ci siano questioni di maggiore importanza e urgenza (guerra, inflazione e bollette solo per dirne alcune) ma questo non vuol dire che concentrarsi sulla diffusione di un linguaggio che comprenda anche le “versioni femminili” ci obblighi a mettere in secondo piano altre questioni. Se mai ci sarà, quello del linguaggio è cambiamento che richiede tempo ed educazione linguistica. Così come si insegna che “qual è” si scrive senza apostrofo, allo stesso modo si può insegnare che la parola “medico” non ha per forza una valenza generale.