Spesso la moda è considerata come qualcosa di superficiale e frivolo. Può essere vero, ed è anche dimostrato da casi recenti, che “l’abito non fa il monaco”. Ma, al netto della retorica, ciò che indossiamo è in realtà importantissimo: i vestiti rappresentano il nostro primo approccio con il pubblico, oltre che un’estensione della nostra personalità. Nonostante quello che molti potrebbero pensare, gli abiti che scegliamo di metterci hanno profonde ripercussioni sugli altri e, soprattutto, su noi stessi.
Psicologia della Moda
Esiste una specifica branca della psicologia chiamata psicologia della moda. Si tratta di una disciplina che studia il rapporto tra gli abiti e la nostra mente.
Quello che indossiamo “parla” di noi: i vestiti esprimono la nostra identità e veicolano ciò che siamo. Attraverso gli abiti che scegliamo, gli altri possono ricavare varie informazioni sul nostro conto: il nostro carattere, il nostro stato d’animo, i nostri valori e ideali, la stima che abbiamo di noi, il nostro orientamento politico o sessuale. Allo stesso modo, gli abiti possono anche mentire: possiamo celarci dietro gli indumenti e trasmettere alle persone un’idea falsa su ciò che siamo davvero. La moda è quindi a tutti gli effetti un aspetto importante di quella che viene definita comunicazione non verbale.
Non bisogna fare l’errore di pensare che la psicologia della moda ci spinga a uniformarci e seguire i trend del momento. Non è questo il suo scopo. L’obiettivo è quello di trovare il nostro stile, cioè la nostra personalità.
C’è un legame a doppio filo tra vestiti e stato d’animo. Se per esempio, ci sentiamo tristi, tenderemo a indossare abiti comodi, poco appariscenti e dalle tonalità scure. Cercheremo insomma di essere il più anonimi possibile. Se invece, sceglieremo abiti che ci piacciono davvero e ci valorizzano, il nostro umore ne risulterà sollevato. Questo processo di cura di sé può assumere addirittura una valenza terapeutica. I vestiti possono aiutarci ad aumentare l’autostima e il benessere psicologico creando un’immagine positiva di noi stessi.
Senza dubbio moda e umore si influenzano in maniera reciproca: indossare un vestito che amiamo in un momento pessimo può svoltarci la giornata. L’abito ha quindi la capacità di donare un feedback a noi stessi. A questo proposito, esiste una teoria chiamata Enclothed Cognition.
Enclothed Cognition
L’Enclothed Cognition, ovvero la teoria in base alla quale siamo influenzati da ciò che indossiamo, è stata proposta per la prima volta nel Novecento dallo psicologo americano William James. Ebbe però poco successo. Fu ripresa nel 2014 da due ricercatori della Northwestern University, Hajo Adam e Adam Galinsky. Essi hanno condotto un esperimento importante: prima di tutto, hanno coinvolto 58 studenti dividendoli in due gruppi; al primo gruppo è stato chiesto di indossare un camice bianco, al secondo no. I ragazzi hanno poi svolto un test di attenzione selettiva. I risultati sono stati incredibili: gli studenti col camice hanno ottenuto risultati nettamente superiori rispetto a quelli senza.
Un altro studio che merita di essere menzionato è quello di Karen Pine, docente all’Università di Hertfordshire. Abbiamo il solito gruppo di studenti diviso in due, ma stavolta una parte indossa una t-shirt di Superman, l’altra parte una t-shirt anonima. Anche qui i risultati parlano da soli: i ragazzi con la maglietta del supereroe si sentono più forti e attraenti degli altri. Non si è trattato di una semplice percezione, i ragazzi dotati di maglietta con S rossa sono stati sottoposti persino a test di intelligenza, ottenendo punteggi più alti dei compagni.
Viene naturale chiedersi come è possibile che del semplice tessuto sulla pelle possa sortire questi effetti. Secondo i ricercatori, è una questione di valore simbolico. Un abito che ha un significato autorevole, ad esempio una divisa, ci stimola a concentrarci di più. A livello inconscio, diamo uno specifico significato all’indumento e lasciamo che ci faccia sentire in quel modo. In maniera simile, un capo che associamo a momenti poco impegnati, per esempio una tuta, sortisce l’effetto contrario. Per Galinsky, noi non pensiamo solo col cervello, ma anche col corpo. I nostri processi di riflessione sono basati su esperienze fisiche che mettono in movimento i concetti astratti associati. I vestiti influenzano mente e corpo e ci trasportano in uno stato psicologico differente.
Dobbiamo quindi sfruttare la teoria dell’Enclothed Cognition: indossare determinati vestiti ci potrebbe aiutare a sentirci più sicuri di noi in situazioni potenzialmente ansiogene, come ad esempio durante un colloquio di lavoro.
Power Dressing
Un altro argomento molto interessante è quello di Power Dressing. Questo concetto è nato per far sentire le donne più a loro agio in ambienti maschili, ma oggi ha assunto un altro significato, più vicino all’essere sicuri di sé. Il power dressing riguarda l’idea che l’abbigliamento sia un simbolo di personalità e quindi anche di potere. Si tratta di un insieme di tecniche volte alla valorizzazione estetica dell’immagine, che dovrebbero rendere una donna immediatamente riconoscibile.
Il power dressing, quindi, è un concetto legato prevalentemente alla moda femminile. Questa estetica è entrata nell’immaginario collettivo come emblema della “donna in carriera”. Capo iconico di questa teoria è il tailleur, un indumento che regala subito autorevolezza alla donna, soprattutto in ambienti professionali governati da uomini. Il power dressing è uno strumento comunicativo su cui le donne hanno puntato con l’obiettivo di trasmettere un’immagine di potere.
Questa teoria si sviluppa negli anni Settanta e Ottanta, anni di grandi cambiamenti socioculturali e lotte per l’emancipazione. Le donne individuano nell’abbigliamento una via per l’indipendenza: stufe delle gonne lunghe, nasce così una nuova immagine di donna, capace e autorevole e che indossa abiti dallo stile manageriale ed elegante. Oltre al tailleur, acquisiscono importanza giacche oversize o con spalline imbottite e blazer ispirati ai completi maschili. In questo processo è importante Giorgio Armani, che compie una rivoluzione destrutturando la giacca e creando lo “smart casual”, lo stile preferito della donna emancipata che vuole coniugare disinvoltura e ricercatezza.
Un’icona del power dressing è sicuramente Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990. Il suo modello di power dressing ha influenzato generazioni di donne: essa amava indossare tailleur rigorosi, spesso blu o azzurri. La politica inglese fu un simbolo di emancipazione in un mondo di uomini, ovvero il mondo politico.
Oggi il power dressing non contempla più un dress code rigido, ma tutto è legato al messaggio che si vuole dare e al contesto lavorativo. La rivoluzione della moda negli anni Novanta ha lasciato spazio ad outfit più comodi e casual.
I Colori
Non si può parlare di moda e psicologia senza nominare un elemento fondamentale: il colore. Anche i colori parlano di noi e veicolano stati d’animo, sensazioni e dicono molto sul nostro carattere. Esiste infatti una vera e propria psicologia del colore. Invece, l’analisi del colore personale, tenendo conto sia delle stagioni che della tonalità di pelle, è chiamata armocromia.
Il rosso è un colore estroverso che simboleggia desiderio e passione. Diversamente, il nero esprime discrezione, eleganza e mistero ed è adatto a serate importanti. All’opposto abbiamo il bianco, che veicola purezza e innocenza. Il colore simbolo della calma e della stabilità è il blu, che viene scelto da persone introverse e prive di tensioni. Se si vuole trasmettere energia e vivacità, bisogna vestire di giallo. L’emblema dell’equilibrio e della rinascita è il verde, da indossare se si è troppo ansiosi. Chi non vuole responsabilità, deve scegliere il colore più neutro in assoluto, il grigio. La quintessenza della dolcezza e della femminilità e il rosa, un colore romantico che riesce a stemperare l’aggressività. L’unione di rosso e blu crea una tonalità particolare, il viola, che richiama l’occulto, la magia e la spiritualità.
Esattamente come per gli abiti, i colori influenzano sia gli altri che noi stessi. Occorre sceglierli con cura e usarli a nostro vantaggio.
Fashion Therapy
Osservando gli abiti indossati da una persona, gli studiosi riescono a dedurre tratti di personalità. Il termine Fashion Therapy, si riferisce allo studio del legame che un individuo ha con i vestiti, sfruttandolo come terapia per curare alcuni disturbi (Sacchi & Balconi, 2013). Secondo questi psicologi, il rapporto tra noi e i nostri vestiti può essere adeguato o non adeguato. Il rapporto si configura adeguato quando la scelta dei vestiti viene fatta con cognizione di causa e rispettando il contesto. In caso contrario, il rapporto è considerato patologico.
Sacchi e Balconi (2013), hanno individuato quattro tipologie di personalità patologiche: ci sono i modadepressi, cioè persone che hanno problemi con l’apparenza. Questi tipi sono asociali e privi di interessi, non curano né l’aspetto fisico, né la scelta dei vestiti. La seconda categoria riguarda i modainsensibili, si tratta di individui indifferenti all’abbigliamento che preferiscono vestiti standard e anonimi. Non si esprimono mai e sono menefreghisti. Al terzo posto abbiamo i modanevrotici, sono considerati dagli studiosi come troppo fantasiosi. Vivono la loro immagine con divertimento esagerato e prendono troppo sul serio il loro aspetto. L’ultima categoria spetta ai cosiddetti modaschizzati, sono individui totalmente ignari della sintonia tra ciò che sono e come si vestono.
In conclusione, si dovrebbe smettere di considerare la moda come qualcosa di patinato e superficiale, ma anzi renderci conto delle potenzialità degli abiti. Essi hanno varie funzioni rispetto a come ci vediamo e a come gli altri ci vedono. Un vestito può risollevarci l’umore, può renderci più sicuri e soddisfatti di noi stessi. Addirittura l’abbigliamento è in grado di migliorare le nostre prestazioni atletiche e intellettive. Forse, i vestiti e i colori che stanno sopra la nostra pelle, così in bella vista, in realtà rappresentano il nostro strato più profondo.
FONTI
https://www.sartorialeonardo.it
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