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La morte, affrontata dall’uomo nella letteratura

Altri cinque minuti da vivere dunque. E cosa pensa, negli ultimi cinque minuti, un uomo che verrà fucilato?

Un uomo, O. Fallaci

Spesso nella letteratura i protagonisti si trovano davanti alla morte. Pur essendo questo il destino dell’essere umano, perché ogni uomo sa che la propria storia finirà così, normalmente non si può sapere quando accadrà. Ci sono personaggi che muoiono di vecchiaia, logorati dalla malattia, perdono la vita per un incidente oppure si suicidano. Conoscere l’esatto momento in cui l’esistenza avrà fine è possibile soltanto per i condannati a morte. In questo caso, vari scrittori descrivono l’essere umano davvero di fronte alla morte, spesso caratterizzato da una lucida consapevolezza. Da Platone a Nabokov, l’uomo affronta il patibolo in maniera diversa; eppure di fronte alla scadenza peggiore e all’eliminazione di qualunque seconda possibilità, emergono dei tratti che potrebbero appartenere a tutta un’umanità.

“Una cosa è morire sotto le torture o alla guerra o su una mina che salta, cioè un margine d’imprevisto, una cosa è morire sapendo di dover morire alla tale ora del tale giorno con la programmaticità di un treno che parte” è quello che afferma Alekos Panagulis in Un uomo (1979) di Oriana Fallaci. Alekos Panagulis è stato condannato a morte per aver attentato alla vita del dittatore fascista Papadopoulus, che si è impadronito del potere in Grecia nel 1967.

Cincinnatus, Invito a una decapitazione di Nabokov

Al contrario per Cincinnatus, protagonista di Invito a una decapitazione di Nabokov (pubblicato a puntate tra il 1935 e il 1936), la pena peggiore è ignorare quando avverrà l’esecuzione. Nel mondo distopico, in cui è ambientato il romanzo, il suo crimine è quello non essere trasparente e dunque sa di dover morire. Trascorre quello che gli rimane da vivere in una prigione davvero atipica: qui va in giro in vestaglia e pantofole e può chiedere tutto quello che desidera.

L’unica cosa che gli è negata è, appunto, sapere il giorno dell’esecuzione. Così, nel giornale che gli portano con la colazione, la carta è sempre ritagliata in corrispondenza della data. Spesso gli ripetono che sarà il giorno successivo e puntualmente poi l’esecuzione viene rimandata. Intanto lo invitano ad avere pazienza. Quando poi Cincinnatus giunge a tentare il suicidio, gli viene impedito perché non può decidere riguardo alla propria vita e alla propria morte. Anche preoccuparsi della sua salute è una manifestazione di potere da parte del regime.

Alekos Panagulis e gli echi socratici

Alekos Panagulis, mentre attende nell’isola di Egina di essere giustiziato, scaccia il cappellano, presenza che ritorna anche nel romanzo Il rosso e il nero (1830) di Stendhal e nello Straniero (1942) di Camus, a tormentare Julien Sorel e Meursault. Riflette sull’esistenza o assenza di Dio e non vuole nemmeno sprecare un istante, ma a un certo punto esausto decide di dormire dieci minuti. Dorme due ore, prendendosela con i soldati che avrebbero dovuto svegliarlo.

Qui s’intensificano i richiami socratici, s’intuisce la figura del filosofo che parla con i suoi compagni e sostiene che non abbia senso la paura della morte. Panagulis è convinto che a volte sia necessario morire per la libertà.

Il suo aguzzino Hazizikis, dopo le torture, lo ha paragonato a un novello Socrate; allora Panagulis gli fa recapitare un messaggio: gli chiede di offrire per lui un gallo ad Esculapio. L’espressione enigmatica riporta al finale del Fedone in cui Socrate rivolge la stessa richiesta all’amico Critone. Le interpretazioni potrebbero essere più di una: secondo Nietzsche Socrate si sentirebbe in debito con il dio della medicina perché si sta per liberare dalla malattia del corpo; oppure, il sacrificio del gallo dovrebbe favorire la guarigione di Platone, al momento malato. In quest’ultimo caso indicherebbe anche un passaggio di testimone all’allievo. Inoltre l’esecuzione di Panagulis viene rimandata, inizialmente solo di un giorno, perché durante la festa di Maria Vergine non possono essere eseguite condanne a morte.

Apologia, Critone e Fedone

Socrate invece deve aspettare che rientri in porto la nave andata a Delo per onorare Apollo, mantenendo fede a un voto di Teseo. Platone racconta la morte del maestro nell’Apologia, nel Critone e nel Fedone. Il filosofo sa di essere innocente e di non aver trasgredito la propria morale; ma non si può opporre alla giustizia e alle leggi della città di Atene, se queste lo condannano.

Dunque rifiuta la possibilità di fuga offerta da Critone. Nel Fedone infine sono rappresentati gli ultimi istanti della sua vita, beve la cicuta senza perdere mai la sua serenità, nonostante il dolore che infliggerà ai suoi allievi e ai familiari. Così offre il suo ultimo insegnamento, che si può racchiudere nelle ultime parole dell’Apologia, dove Socrate pronuncia la propria arringa difensiva: “Ma è già l’ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi dei due però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che al dio.”

La condanna a morte di Dostoevskij

La condanna a morte di Panagulis però a differenza di quella di Socrate viene rimandata a tal punto da non essere più eseguita, e lo rinchiudono nel carcere di Boiati.

Anche L’idiota di Dostoevskij(1869) racconta una condanna a morte scampata. Il 19 dicembre 1849 l’autore stesso stava per essere fucilato assieme ad altri diciotto compagni. Erano entrati in carcere l’aprile di quell’anno per aver fatto parte di un gruppo sovversivo. Il circolo riuniva nobili, uomini di cultura, scrittori e artisti attorno a Michail Petraševskij. Discutevano di letteratura, filosofia, libertà, umanità e utopie socialiste. Non svolsero mai una vera e propria attività rivoluzionaria, ma lo zar Nicola I, intimorito dalle rivolte del 1848 negli altri stati europei, li considerò pericolosi.

Un attimo prima dell’esecuzione arrivò la grazia: così i condannati vennero deportati in Siberia.

Dostoevskij, L’idiota

È da questa esperienza che Dostoevskij arriva a far raccontare al principe Myškin, personaggio su cui s’incentra L’idiota, la storia di un uomo condannato a morte:

Una volta quest’uomo fu condotto al patibolo insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte mediante fucilazione, per un delitto politico. Di lì a venti minuti gli fu letta anche la grazia, e gli fu commutata la pena. tuttavia, nell’intervallo di tempo fra le due sentenze, che fu di circa venti minuti, o almeno un quarto d’ora, egli visse con l’assoluta convinzione che di lì a qualche minuto tutt’a un tratto sarebbe morto.

E ancora:

Gli restavano da vivere cinque minuti, non di più. Egli diceva che quei cinque minuti gli erano parsi interminabili, una ricchezza enorme. Gli pareva che in quei cinque minuti avrebbe vissuto tante vite, che per il momento non bisognava ancora pensare all’ultimo istante, cosicché prese varie risoluzioni: calcolò il tempo occorrente per dire addio ai suoi compagni, e per quello stabilì due minuti, altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso e poi per guardarsi intorno un’ultima volta. “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”

Allora Elizavèta Prokòf’evna gli pone questa domanda: “E allora, che ne fece poi di quella ricchezza? Visse veramente “tenendo conto” di ogni minuto?”

La risposta del principe: “Oh, no, me lo diceva egli stesso, perché anch’io glielo avevo chiesto. Non visse così, e perdette molti molti minuti”.

 La ghigliottina nella letteratura francese

In alcuni romanzi francesi, Il rosso e il nero e Lo straniero, incombe la presenza della ghigliottina, mentre i condannati a morte riflettono nelle loro celle. Julien Sorel considera che il verbo “ghigliottinare” non può essere declinato in tutti quanti i tempi e le persone: ad esempio si può dire “io sarò ghigliottinato”, ma non “io sono stato ghigliottinato”.

Meursault, d’altra parte, si accorge che la percentuale di fallibilità della ghigliottina è bassissima. È un meccanismo quasi perfetto; in più il condannato a morte stesso augurarsi che il colpo andasse a segno perfettamente, per non soffrire: “era costretto a collaborare moralmente. Aveva tutto l’interesse a che la faccenda procedesse senza intoppi”. Poi scopre che il patibolo non si trova sopraelevato, come credeva, e che raggiungerlo non costituisce un’ascesa.

Julien Sorel: da giovane ambizioso, ritrova se stesso

Julien Sorel viene condannato a morte per aver tentato di uccidere la sua ex amante Madame de Rênal. Il discorso con cui si difende al processo è quasi un suicidio. Fa indignare i nobili e i borghesi della giuria, parlando anche di privilegi su basi classiste. Si è reso conto di non aver più nulla da perdere e di dover cercare di schierarsi a favore almeno dei valori in cui crede.

In prigione Julien non può “chiudere la porta”, dunque non può sottrarsi a un susseguirsi di visite negli ultimi giorni di vita, tra cui Madame de Rênal, suo padre e la moglie Mathilde. All’inizio crede che gli rimangano pochi giorni di vita e si abitua all’idea di morire a tal punto da non voler ricorrere all’appello. Solo la promessa di Madame de Rênal, con la quale si è riappacificato, di vivere il loro amore nei due mesi concessi dall’appello lo convince.

La cella è anche luogo di autoanalisi per Julien, che prima appare per lo più come giovane ipocrita e ambizioso. Lì acquista profondità intellettiva, arrivando a definirsi come le sorgenti del Nilo: “Non si conoscono affatto le sorgenti del Nilo […] All’occhio umano non è stato concesso di vedere il re dei fiumi allo stato di semplice ruscello: allo stesso modo, nessun occhio umano vedrà Julien debole, prima di tutto perché non lo è. Ma ho il cuore facile alla commozione […] Io solo so quello che avrei potuto fare… Per altri non rappresento, al massimo, che un FORSE. Se la signora de Rênal fosse qui, nella mia segreta, al posto di Mathilde, avrei potuto rispondere di me?”

La morte di Julien Sorel

Ragiona sull’esistenza di una presenza divina, credendosi spacciato nel caso in cui assomigli al Dio biblico; invece qualora sia un Dio d’amore, Julian potrà essere perdonato perché ha molto amato.

La morte di Julien Sorel rappresenta l’impossibilità di poter affermare certi ideali, alla base della rivoluzione e dell’epoca napoleonica, nel XIX secolo ormai corrotto, eppure alla ricerca di legittimazione, che fa dunque di questi ideali una facciata. La nobilitazione di Julian avviene solo nel momento in cui accoglie le sue debolezze e comprende che l’unica ricchezza che abbia mai avuto sono stati i giorni trascorsi a Vergy in compagnia di Madame de Renal, l’unica che l’abbia mai amato per la sua vera natura. Così,  in punto di morte, ricordando quei momenti, la sua mente diviene creatrice di immagini: “Quella testa non era mai stata tanto poetica come nel momento in cui stava per cadere. I dolci istanti trascorsi un tempo nei boschi di Vergy gli tornavano alla mente e con estrema chiarezza.

Tutto avvenne in modo semplice, dignitoso, e senza nessuna ostentazione da parte sua.”

Lo Straniero di Camus, Meursault e la sua totale assenza di pentimento

Meursault nello Straniero viene condannato a morte per aver ammazzato un arabo e in lui non avviene l’ombra del più piccolo pentimento al processo. Lì viene dipinto come una persona immorale e crudele che non ha nemmeno al funerale della propria madre. Del proprio padre, che non ha mai conosciuto, sa solo che è andato a vedere un’esecuzione capitale e che al ritorno ha vomitato.

Il protagonista attende con ansia ogni alba, momento in cui avverrà l’esecuzione, e un possibile ricorso, ma giunge a pensare alla morte come a non più qualcosa di terribile: “Ma tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta. In fondo sapevo che morire a trent’anni o a settanta importa poco, giacché in entrambi i casi, naturalmente, altri uomini e altre donne continueranno a vivere, e questo per migliaia di anni. In sostanza, era tutto chiarissimo. A morire ero sempre io, subito o tra vent’anni che fosse.”

Quindi segue la visita col cappellano, durante la quale la conversazione si concentra sul pentimento e sulla possibilità di un’altra vita. All’inizio Meursault non è interessato ed è quasi dissacrante; quando il cappellano gli chiede se abbia mai desiderato un’altra vita, lui scrive: “gli ho risposto che ovviamente mi era capitato, ma come desiderare di essere ricco, di saper nuotare come un pesce o di avere una bocca disegnata meglio. Aveva lo stesso valore.”

Un’unica certezza

Poco dopo però l’uomo perde la sua  calma, esplode di fronte alle provocazioni del prete. Ormai l’unica certezza che gli rimane è ciò che ha compiuto. Il suo è stato semplicemente un atto, quando avrebbe anche potuto fare tutt’altro. Da qui giunge all’assurdità dell’esistenza, a sentirsi straniero in un mondo che non gli appartiene, dove può trovare il suo posto solo sottomettendosi alle conseguenze delle sue azioni.

Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e della morte che mi aspettava. Sì, non avevo altro. Ma almeno possedevo quella verità quanto lei possedeva me. Avevo avuto ragione, avevo ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in un modo e avrei potuto vivere in un altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto quella cosa ma avevo fatto quest’altra. E dopo? Era come se avessi aspettato per tutta la vita quel minuto e quell’alba che mi avrebbero giustificato. Niente, assolutamente niente aveva importanza, e sapevo bene perché. Anche lui sapeva perché. Dal fondo del mio futuro, per tutta la vita assurda che avevo condotto, un soffio oscuro mi veniva incontro attraverso anni non ancora nati, e quel soffio livellava al suo passaggio tutto ciò che mi venisse offerto negli anni non più reali che vivevo.”

Arriva così a riconoscersi nel mondo e a dichiarare di sentirsi felice, fino a concludere: “Perché tutto fosse consumato, perché mi sentissi meno solo, dovevo augurarmi che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione, e che mi accogliessero con grida di odio”

FONTI

Oriana Fallaci, Un uomo, 1979, Rizzoli

Fedor Dostoevskij, L’idiota, 2013, BUR

Albert Camus, Lo straniero, 2015, Bompiani

Stendhal, Il rosso e il nero, 2013, Feltrinelli

Nabokov, Invito a una decapitazione, 2004, Adelphi

Platone, Simposio Apologia di Socrate Critone Fedone, 2014, Oscar Mondadori

mescalina.it

massimedelpassato.it

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