“Preparati a morire Jack, ora contiamo fino a mille e poi spariamo!”.
“Perché dobbiamo contare fino a mille, Joe?”.
“Perché intanto vado a prendere la pistola che ho scordato a casa!”.
Prendo in prestito questa battuta di Bilbo Baggins per parlare in chiave un po’ ironica di qualcosa che, nel tempo, abbiamo mitizzato: i duelli nel Far West. Due pistoleri, due pistole, uno scontro all’ultimo sangue, una strada polverosa al calar del sole… i cult di Clint Eastwood e di Sergio Leone ci hanno abituati a un immaginario ben diverso dalla realtà storica.
La realtà dei duelli nel Far West
Contrariamente all’immaginario collettivo -di per sé molto affascinante-, i duelli formali tra due soli individui erano eventi davvero rari nel Far West. Le sparatorie avvenivano più frequentemente in modo spontaneo, spesso in luoghi come saloon o strade affollate.
Inoltre non esisteva alcun codice d’onore e, anzi, non era affatto inusuale che qualcuno venisse colpito alle spalle o senza preavviso. Molte di queste sparatorie erano il risultato di dispute personali, questioni di gioco d’azzardo o conflitti territoriali.
Il duello artistico: fotografi contro pittori
Ad ogni modo, la chiave ironica serviva per introdurre un duello dicotomico: quello che vedeva come protagonisti da una parte i fotografi e dall’altra i pittori, che insieme si contendevano la rappresentazione della realtà. E i litiganti, per rimanere fedeli alla storia, erano ben più di due.
Ma atteniamoci al nostro bias: prendiamo in esame un solo fotografo e un solo pittore e mettiamoli a confronto.
Frederic Sackrider Remington, il pittore del West
Nato nel 1861 a Canton (New York), Frederic Remington trovò la sua ispirazione nelle vaste distese dell’America occidentale.
Quando, poco più che ventenne, fece il suo primo viaggio a ovest, nel Montana, ebbe l’occasione di ammirare un contesto ben diverso dalla città. Mandrie di bisonti -che nel frattempo erano in rapida diminuzione-, il bestiame senza recinti, gli orsi grizzly -che amava cacciare- e gli ultimi scontri tra la cavalleria statunitense e le tribù di nativi americani.
Nel 1882, in seguito a questo viaggio, realizzò una primissima illustrazione, uno schizzo veloce che venne pubblicato sulla rivista Harper’s Weekly.

E poi, come ogni artista che si rispetti, iniziò a vivere una vita difficile, fatta di incomprensioni e delusioni d’amore.
Prima si trasferì nel Kansas per investire l’intera eredità in un allevamento, poi vendette la terra e tornò a New York. Poi tornò a Kansas City, divenne socio silenzioso di un saloon e sposò una newyorkese, tale Eva Caten, che in poco tempo iniziò a essere infelice della sua vita, al punto da mollarlo. Anche perché lei non aveva mai apprezzato tutti quei piccoli ritratti dei clienti del saloon che Remington realizzava ogni giorno; ergo, non appena la sua professione di pittore divenne nota, lei decise di lasciarlo e di tornare a New York.
Ma Remington, forte di una grande fede e passione, andò a riconquistarla, si ri-trasferì con lei a New York e iniziò gli studi all’Art Students League, rafforzando la sua tecnica, ancora grezza.
Ed ebbe, in tutto ciò, un tempismo invidiabile: proprio in quegli anni l’interesse dei giornali per il West stava crescendo a dismisura. Negli anni da “fuorisede” aveva acquisito un nuovo modo di parlare, di atteggiarsi, di porsi: era un vero e proprio cowboy e ciò gli permise di ottenere una certa credibilità presso gli editori orientali in cerca di autenticità.
A 25 anni, il 9 gennaio 1886, vide, sempre su Harper’s Weekly, la sua prima copertina a tutta pagina.

La tecnica pittorica di Remington
Remington era noto per la sua capacità di catturare l’azione e il dramma del West attraverso una combinazione di realismo e impressionismo. Le sue opere presentano una tavolozza cromatica ricca e dettagli accurati.
Tuttavia, nonostante l’attenzione al dettaglio, Remington non esitava a prendere alcune libertà artistiche per enfatizzare l’energia e il movimento nelle sue scene.
Ad esempio, studiando le fotografie sequenziali del fotografo inglese Eadweard Muybridge -che studiava il movimento attraverso la fotografia- Remington fu tra i primi artisti americani a rappresentare con precisione il galoppo dei cavalli, correggendo rappresentazioni precedenti meno accurate.

La nostalgia nelle opere di Remington
Va sottolineata una delle peculiarità più interessanti di questo artista: il fatto che le sue opere fossero pervase da una profonda nostalgia di un West che, ormai, stava scomparendo.
Remington ha immortalato cowboys, soldati e nativi americani, spesso enfatizzando l’eroismo e la mascolinità in scenari di frontiera. E, soprattutto in un periodo di rapidi cambiamenti sociali e culturali, tale rappresentazione romantica offriva al pubblico dell’epoca una visione rassicurante e idealizzata del passato.



Edward Sheriff Curtis, il cacciatore di ombre
Nato nel 1868 a Whitewater (Wisconsin), Edward Curtis iniziò la sua carriera come fotografo di ritratti a Seattle, ma trovò la sua vera vocazione quasi 30 anni più tardi, nelle vite e nelle tradizioni dei nativi americani.
Durante la propria carriera, quindi, Curtis documentò per ben 24 anni le culture indigene del Nord America, raccogliendo centinaia di ritratti e scene di vita quotidiana delle tribù native. Cercava, cioè, di fermare l’immagine di un mondo che stava velocemente cambiando.
Il massacro di Wounded Knee
È il 1890 quando il massacro di Wounded Knee segna simbolicamente la fine di un’era, la fine di una cultura. Edward Curtis ha appena 21 anni, ma quella data imprime un segno indelebile nella sua vita e nel suo lavoro.
Poco dopo, inizierà a documentare la vita degli Indiani della riserva di Puget Sound. Un punto di partenza che lo porterà, nei primi anni del 1900, a concepire un progetto ben più ambizioso: raccogliere, attraverso parole e fotografie, un’ampia testimonianza della vita, delle tradizioni, delle cerimonie, delle leggende e dei miti delle tribù del Nord America ancora raggiungibili.
The North American Indian
Ed è proprio nel 1907 che Curtis avviò la sua impresa più famosa: The North American Indian, un’opera monumentale, composta da 20 volumi e più di 40.000 negativi. Un tentativo vero e proprio di fermare il tempo, prima che la modernità inghiottisse per sempre quelle culture millenarie.

Un particolare interessantissimo di quest’opera è che Curtis raccolse ogni tipo di testimonianza dei capi tribù, incluse 10.000 registrazioni di canti, effettuate con un proto-registratore.
La cosiddetta “nostalgia imperialista” di Curtis
Va però detto che le sue fotografie, pur essendo reali -nel senso che catturavano momenti autentici della vita dei nativi americani- sono state spesso oggetto di critiche, a causa della loro estrema idealizzazione e romanticizzazione.
E, al netto di ciò, spesso Curtis organizzava le sue scene: con la volontà di rappresentare i soggetti in scenari che enfatizzavano la loro “pura natura primitiva”, ricreava le ambientazioni o utilizzava costumi tradizionali, al solo fine di enfatizzare l’aspetto esotico delle culture ritratte.
Cosa più importante, Curtis era solito dire ai protagonisti delle sue foto di rimuovere dalla scena gli oggetti occidentali. Molto spesso chiedeva di sfilarsi gli orologi dai polsi.
La critica alla nostalgia imperialista, a detta di molti, ci sta tutta. È però innegabile la grandezza di questa magnifica opera.



Il duello: ricordo e rievocazione
Il confronto tra Curtis e Remington non è solo una questione di stile o tecnica, ma di approccio radicalmente diverso alla realtà.
Se Remington era un maestro della rievocazione, con scenari e soggetti che erano più vicini a un ideale, un‘epoca mitica che svaniva nel tempo, Curtis si dedicava alla documentazione di ciò che restava, un ricordo tangibile che cercava di fermare la modernità prima che inghiottisse per sempre le tradizioni e le culture dei nativi americani.
Ma c’è una differenza profonda tra ricordare e ricreare. Remington, infatti, non si limitava a rappresentare un momento; lo infondeva di energia, facendolo diventare quasi un’opera di fiction. Curtis, al contrario, cercava di “congelare” quella realtà, ma lo faceva con una certa libertà, ricreando ambienti, correggendo dettagli… come se la fotografia fosse una performance, più che una mera testimonianza.
Possiamo dire che il duello era ad armi pari ed è difficile decretare un vincitore.
Ad armi pari, ma…
…ma non per quanto riguarda la complessità della professione. Quella del fotografo, seppur possa sembrare più semplice rispetto alla pittura, nell’epoca del Far West era infinitamente più complessa e pericolosa.
Curtis non aveva il lusso di restare a casa e abbozzare la scena. La fotografia, soprattutto in un contesto come quello delle riserve indiane, era molto più di un atto artistico: comportava viaggi estenuanti, interazioni complesse con le tribù, pericoli naturali e sfide logistiche. Tra neve, pioggia, vento e fango, Curtis affrontava un mondo che Remington non avrebbe mai visto di persona.
Ma, a dispetto della difficoltà oggettiva del suo lavoro, la fotografia di Curtis era sempre sotto il peso di un compromesso: la sua ricerca di autenticità veniva spesso minata dalla necessità di costruire scene “perfette”. In questo senso, si potrebbe dire che Curtis, pur vivendo un’avventura incredibile, non sfuggì mai alla trappola della nostalgia… come, d’altronde, il suo “sfidante” Remington.
Fonti
William C. Fox, Frederic Remington: A Life in Art.
Mick Gidley, Edward S. Curtis and the North American Indian, Incorporated.
John Mack Faragher, The American West: A New Interpretive History.