Il caporalato per capire la Kafala
La Kafala e il caporalato rappresentano due facce della stessa medaglia. Entrambi infatti riguardano un sistema in cui la vulnerabilità dei lavoratori migranti è sfruttata per soddisfare l’instancabile produttività imposta dal capitalismo contemporaneo.
Originari di contesti geografici diversi, Kafala e caporalato sono pratiche di abuso e controllo che riducono i lavoratori a una condizione di invisibilità giuridica e sociale.
Il caporalato italiano si basa sul reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (art. 603 bis c.p.) da parte di caporali. Essi gestiscono il reclutamento e il trasporto dei lavoratori verso i luoghi di lavoro, per lo più in ambito agricolo.
Molte organizzazioni umanitarie riportano che le violazioni dei diritti umani sono molte in questo contesto.
L’associazione L’Altro Diritto e Flai Cgil (Federazione Lavoratori Agroindustria della Confederazione Generale Italiana del Lavoro) hanno registrato 458 inchieste nel 2021.
Il 74% dei casi riportati coinvolgono lavoratori stranieri provenienti da Nigeria, Senegal, Pakistan, Romania e India. (Dati attestati dal IV Rapporto del Laboratorio sullo Sfruttamento Lavorativo)
La Kafala: da meccanismo di tutela a macchina da soldi
Il sistema della Kafala (dall’arabo كفل, “fare da garante” o “tutore legale”) nasce come “normativa del diritto familiare islamico. Essa permette di tutelare un minore o una persona bisognosa senza stabilire legami di parentela giuridica”.
A partire dal XX secolo, il suo significato giuridico si estende al diritto economico-commerciale, dove il garante (kafīl) assicura che il garantito (makfūl) adempia a determinati obblighi lavorativi.
Si potrebbe definire un meccanismo di conservazione della stabilità socio-economica, attraverso la protezione dei più vulnerabili e il consolidamento delle rete lavorative.
Dagli anni ‘70 la logica di tutela originaria si trasforma in un sistema di sfruttamento, spesso definito “schiavitù moderna”. Oggi infatti la Kafala è in molti casi l’unico strumento regolamentativo dei rapporti tra lavoratori migranti e datori di lavoro, principalmente nei paesi del Golfo e del Levante.
Il contratto che espone agli abusi
Il contratto, mediato da agenzie locali, prevede che il futuro datore (kafīl) paghi le spese di trasporto e visto, garantendo la permanenza legale del lavoratore (makfūl) nel paese.
Si tratta di un corpo di leggi non scritte: i lavoratori da esso regolati sono esclusi dalla legislazione nazionale in materia di lavoro e perciò più esposti ad abusi.
Le violazioni documentate includono turni fino a 24 ore senza riposo, violenze fisiche e verbali, divieto di associazione sindacale, mancanza di copertura sanitaria. Spesso si riporta anche il trattenimento dei documenti o reclusione forzata presso il domicilio, di solito corrispondente con il luogo di lavoro.
Non di rado, la paura di perdere il permesso di soggiorno impedisce ai lavoratori coinvolti di denunciare o chiedere il licenziamento.
Il caso del Libano
L’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) ha registrato circa 177.000 migranti in Libano nell’ottobre 2024. Tra essi rientrano i molti collaboratori domestici vittime della Kafala. Sono per lo più donne, provenienti da Sierra Leone, Etiopia, Filippine e Bangladesh, ma non solo.
Ciascun lavoratore è chiamato a versare delle tasse di reclutamento che variano dai 1300 ai 1500 dollari statunitensi;
alcuni reclutatori libanesi hanno dichiarato di avere un introito annuo tra i 100.000 e 200.000 dollari, valori che crescono o diminuiscono in proporzione al numero di lavoratori assunti. (Dati della Fair Recruitment Initiative dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO))
Nonostante l’introduzione di un nuovo contratto conforme alla Convenzione n. 189 della ILO (2021), lo smantellamento della Kafala resta uno scenario difficile da immaginare.
Infatti, la mancanza di meccanismi efficaci per l’applicazione dei nuovi termini di lavoro e la continua generazione di profitti nel settore rappresentano due dei principali ostacoli.
Le realtà di Kafala e caporalato rappresentano uno degli effetti collaterali del capitalismo.
Essi confermano quanto mantenere l’integrazione socio-economica e giuridica dei lavoratori migranti instabile e poco codificata sia cruciale per garantire un flusso costante di manodopera a basso costo.
Solo così infatti è possibile continuare produrre al ritmo desiderato su scala globale.
Immagine di copertina generata da Gemini