Henry Miller: la crudeltà dello stile

Uno degli autori più controversi della cosiddetta “Beat generation” è senza dubbio Henry Valentine Miller. Pittore e scrittore dalla natura ribelle, dal carattere difficile che lo spinge irrequieto da un porto all’altro senza ancoraggio, senza parvenza di stabilità emotiva (ebbe una lunga sequela di relazioni) o lavorativa. Emblematica è la storia di uno dei suoi libri maggiori: Il Tropico del Cancro. Scritta durante il soggiorno parigino, pubblicata nel 1934, l’opera ebbe da subito vita difficile: tacciata di pornografia ed oscenità poté circolare liberamente negli Stati Uniti soltanto nel 1961, dopo l’ennesima sentenza assolutoria.

Questo l’incipit dell’opera: “Abito a villa Borghese. Non un granello di polvere, non una sedia fuori posto. Siamo soli, e siamo morti.” E per chi ha poco fiuto per ciò che si trova sotto al naso, il narratore nuovamente incalza: “…Ieri sera Boris si è accorto di avere i pidocchi. Gli ho dovuto radere le ascelle, ma il prurito non ha smesso.”. Il ritmo trascinante delle prime righe continuerà per tutta l’opera con un continuo innalzarsi in picchi di lucida e disincantata critica alla società (specialmente americana) ed abbassarsi nelle più bieche descrizioni pornografiche.

Miller stesso quasi conscio dello smarrimento suscitato nel lettore, perso in questo crocevia di impressioni contrastanti, prova ad offrire una singolare chiave di lettura: “Questo non è un libro. E’ libello, calunnia, diffamazione. Ma non è un libro, nel senso usuale della parola. No, questo è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte, un calcio alla Divinità, all’Uomo, al Destino, al Tempo, all’Amore, Alla Bellezza…a quel che vi pare”. E basta appellarsi a questo manifesto di poetica per scorgere i caratteri salienti di quest’opera e di quelle a venire: distruzione e rifondazione. Distruzione di ogni convenzione narrativa come prima di lui Rimbaud (non a caso Miller ne è accanito lettore), rifondazione su un terreno vergine, e in quanto tale, nudo, inerme e inviso a pregiudizi: da qui egli a partire dalle sue esperienze personali e sulla scorta di mentori spirituali quali Dostoevskij, Freud, Jung, descrive l’impresa dell’essere uomo e dell’essere artista in un mondo di valori da reinventare, o semplicemente da sbeffeggiare in quanto divenuti impraticabili, e lo fa dando voce alle grettezze, alla manie, alle perversioni, ai piaceri proibiti, ma anche alle speranze messe a tacere eppure sempre riaffioranti, ai sogni impraticabili ma che sempre danno cenno di voler assurgere a realtà.

Ed è questa la maggiore eredità dell’opera Milleriana: le invocazioni, le folgorazioni improvvise, la sete. Egli quasi sbotta: “Amo tutto ciò che scorre, anche il flusso mestruale che si porta via il seme infecondato. Amo gli scritti che scorrono, siano essi ieratici, esoterici, perversi, polimorfi, o unilaterali.” “…Amo tutto ciò che scorre, tutto ciò che ha in sé tempo e divenire, che ci riporta al principio dove non c’è mai fine: la violenza dei profeti, l’oscenità che è estasi, la saggezza del fanatico, il prete con la sua gommosa litania, le parole sozze della puttana…” . Flusso sì di coscienza, ma anche di vita: mia e vostra, individuale e collettiva, principio dove non c’è mai fine, dove tutto cangia e permane.

 

 

Fonte: Tropico del Cancro, Henry Miller
Edizione Oscarmondadori, traduzione di Luciano Bianciardi

credits

 

Un articolo di Valentina Nicole Savino, collaboratrice occasionale de Lo Sbuffo.

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