Sarebbe possibile elencare tredici ragioni per cui 13 – una delle nuove serie targate Netflix, resa pubblica sulla piattaforma dal 31 marzo – ha suscitato tanto scalpore. Sarebbe possibile parlarvi dettagliatamente di ogni aspetto apparentemente secondario in altrettanti articoli. Sarebbe anche possibile seguire le orme di Entertainment Weekly ed elargire la nostra opinione sul perché la serie debba o non debba proseguire in una seconda stagione – e in una lista da tredici punti, ovviamente. Eppure… sarebbe un cliché. E, considerato l’intento di questo articolo, un cliché è tutto quello che deve essere evitato.
13 Reasons Why (letteralmente “13 ragioni perché”) si basa sul quasi omonimo romanzo di Jay Asher, pubblicato nel 2007, nel quale si racconta del suicidio di una teenager, Hannah Baker, che decide di spiegare i motivi del suo drammatico gesto attraverso tredici audiocassette. Ebbene sì, proprio lei: “Hannah Baker, dal vivo e in radio”, mentre dichiara, nastro dopo nastro, le tredici ragioni scatenanti, le tredici persone per cui l’adolescente ha perso ogni speranza e voglia di vivere. La serie TV ha suscitato reazioni contrastanti: i social sono esplosi, gli adolescenti rimasti coinvolti in un vortice di emozioni e riflessioni, alcuni se ne sono innamorati, altri scandalizzati, altri ancora – che in un primo momento si erano dimostrati interessati a come una serie TV potesse dipingere il tema del suicidio adolescenziale – sono invece rimasti delusi per la mancanza di profondità data a tutti i problemi coinvolti. 13 ha fatto parecchio discutere, e il successo (positivo e negativo) ha sradicato i confini internazionali. Se molti giornali e riviste, infatti, hanno deciso di dare una possibilità alla storia per focalizzarsi su quanto il suicidio non sia la risposta giusta a “Come posso risolvere il problema? Come posso sistemare questa situazione?”, altri hanno cercato di fermarla. Un esempio lampante è il Guardian, il quale afferma che la serie “ritrae il suicidio come un atto che porterà al miglioramento di qualcosa” e che il messaggio sia quello di cercare un capro espiatorio, il quale tuttavia semplifica un’azione che porterebbe solo al caos. Addirittura, in meno di un mese, in Canada numerose scuole hanno iniziato una sorta di censura nei confronti di 13, tanto che sono state inviate e-mail ai genitori in cui si avvisa che, agli studenti, è stato proibito persino parlare della serie. Al contrario, il Community Suicide Prevention Network di Ottawa ha subito aggiornato il sito, offrendo ai genitori supporto e suggerimenti per come affrontare al meglio simili argomenti con i propri figli.
La serie, il libro, la storia in sé, in realtà, hanno molto di più da offrire. Non si tratta semplicemente di capire se tutti siano Hannah Baker o se nessuno lo sia, non riguarda esclusivamente il suicidio e ciò che ne consegue e precede. 13 realizza un mosaico sociale in cui vengono rappresentate tutte le fragilità dell’essere umano e che incidono maggiormente durante quel delicatissimo periodo evolutivo quale è l’adolescenza, in tutte le sue sfumature e in tutti i suoi frammenti: il bullismo, lo stupro, lo stalking, la solitudine, la difficoltà di fare coming out, l’invidia, il divario tra realtà e aspettative, il rapporto con le figure autoritarie, il dolore della perdita, il prendersi le proprie responsabilità, l’amicizia, l’amore, il pettegolezzo, il body-shaming. E il vero messaggio, apparentemente banale eppure non così ovvio, è che la chiave delle relazioni si nasconde nella gentilezza. Considerata la società mediatica in cui viviamo, in cui è più facile attaccare e giudicare piuttosto che cercare la natura e la spiegazione di ciò che accade, la gentilezza è ormai tutto fuorché un cliché.
Non sapendo davvero quello che qualcuno sta passando o come potrebbe interpretare e reagire a ciò che gli viene detto o fatto, cercare di essere gentili con chi ci circonda può portare ad un cambiamento, può attenuare un’oscurità latente, può salvare una giornata – o, se si è fortunati, una vita.
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