Di per sé appendere stendardi, appuntare simboli, cambiare il linguaggio e mutilare statue è di certo un modo – non l’unico – per rimettere in subbuglio uno stagno culturale e fare qualcosa di ammissibile – magari non necessario – sulla strada verso una nuova cultura. È certo inevitabile che degli assestamenti si sfoghino in superficie, quando si viaggia sulla strada per una civiltà più inclusiva, egualitaria e costruita sul rispetto delle civiltà particolari, senza dunque che la fine del capitalismo patriarcale a stampo occidentale venga sostituito con un nuovo modello di cultura e di pensiero unici.
Ma il fatto è che una potenziale debolezza di queste soluzioni si lega spesso a una loro evidente duplicità. Se è vero che violare i simboli, rinnovare la grammatica di una cultura può essere un’azione legata ad una ben più radicale e consapevole critica del sistema (la distruzione del capitalismo, la rinascita del dibattito sui diritti, l’abolizione delle politiche economiche neoliberiste, la rinascita della politica e la salvezza del pianeta), è anche vero che quest’azione può risultare semplicemente un ingenuo sfogo: di per sé giusto, visti i tempi, ma di fatto incapace di astrarre dalle beghe quotidiane, dalla guerriglia di facciata e da un donchisciottesco, disilluso e debolmente accomodante politically correct.
Se da un lato possiamo pensare ad Aboubakar Soumaoro, a Kemi Seba e a movimenti sociali spesso meno conosciuti o annacquati dai media, tutto a motivo della loro lucidità e delle istanze ben più profonde e ostili del floreale “volemose bene”; dall’altra pensiamo alle Sardine, ai flash-mob nelle ZTL e a tutta quella gioventù sprecata tra una colpevole ingenuità rispetto a ciò che succede veramente nel mondo e una dogmatica e inconsapevole adesione alla retorica dei genitori, dei giornalacci di sistema e, in generale, dello status quo.
Tutto questo per poi passare al cinema: è sufficiente associare voce e personaggio secondo criteri etnici (qui, ad esempio, si rischia di cadere dalla parte sbagliata nel sottile equilibrio tra segregazione e sub-cultura), mettere ben agiat* e modaiol* influencers non-bianch* nei ruoli degli eroi dei prossimi miliardari cine-comics, stabilire delle spesso forzose e solo appariscenti quote di gender e melanina?
Oppure il problema è lo stesso sistema cinematografico, che sottopaga le donne perché donne, mercifica corpi e immagini nell’eterno ripresentarsi degli stessi film, investe miliardi in film-distrazione senza originalità solamente per catturare le passioni più rozze e i relativi portafogli, crea un sistema lobbistico che ha monopolizzato le sale fino a sterilizzare ogni forma di effettiva creatività divergente e – ciliegina sui fatti di oggi – sfrutta le differenze e il disagio solo per vendere meglio, senza porsi il problema delle cause profonde che determinano razzismo e sfruttamento, le stesse cause che finanziano quei film?
Per cambiare la cultura, in questo caso il cinema, non basta essere buonisti, liberali e top consumers di tutto ciò che il sistema culturale ci offre, nonostante i suoi terribili moventi e le sue bieche strategie. Questo lo aveva capito Jean-Luc Godard che, nel 1969, a seguito di un rivoltoso e coinvolgente maggio del ’68, non si era limitato al definitivo rinnegare il sistema cinematografico, ma si era già spinto abbastanza oltre da arrivare al cinema collettivistico, al cinema senza firma del Gruppo Dziga Vertov, alla consapevolezza che rivoluzionare il cinema, una cultura, significa innanzitutto trasformare violentemente i modi di produzione di un film, di una cultura capitalista.
Un altro nemico del sistema, del “mercato dell’arte”, dell’egemonia culturale del consumo, Gian Maria Volonté, diceva:
Essere un artista è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita.
Lo stesso Gian Maria Volonté è stato un partecipante d’eccezione ad una delle fatiche più brillanti e ben riuscite del cinema collettivista del gruppo Dziga Vertov, Vento dell’est (1970).
La leggenda vuole che l’auto-rinnegatosi-Godard e il suo collettivo si siano trovati tra le mani una più che discreta sommetta per girare uno “spaghetti western di sinistra”, con protagonista il grande Volonté. Il genio di Godard non si accontentò semplicemente dello sperpero, ma sfruttò i costumi, i personaggi e la location per inquinare il modo di produzione cinematografico vigente e riflettere attivamente su una nuova idea di cinema.
Ovviamente il western non si fece, e – sicuramente causando non poco malcontento all’interno della produzione – al suo posto venne ideata una spettacolare quanto scriteriata rivolta contro i feticci e i complessi della storia del cinema: l’autore, l’attore, la rappresentazione, la narrazione, la distrazione, la correttezza politico-morale, il virtuosismo… Ne risulta qualcosa che potremmo definire “un grottesco backstage”, un capolavoro di rivolta culturale che nella forma del boicottaggio riesce a porre le basi per una futura rivoluzione artistica.
Ad uno spettatore impreparato, Vento dell’est risulterebbe un delirio senza scopo, se non una disturbante messinscena propagandistico-maoista. Incredibilmente, tutto questo è proprio ciò a cui la pellicola ambisce.
Una voce femminile fuori campo – martellante, robotica, perenne – parla di rivoluzione comunista e rinnovamento dell’arte cinematografica, con parziale disinteresse verso ciò che succede al livello delle immagini. La ragazza sessantottina, quando non s’impossessa del tutto del discorso, descrive ciò che fanno i personaggi e quella che formalmente dovrebbe essere una “storia”, ma che di fatto è quanto di più lontano ci sia dalla narrazione e dalla rappresentazione.
È proprio la “rappresentazione”, strumento privilegiato del cinema di prosa, il bersaglio tecnico principale della critica godardiana. Gli attori vengono filmati apparentemente senza criterio mentre svolgono azioni minimali, metaforiche. Non agiscono “impersonando” qualcuno, dando una parvenza di realismo e immedesimazione. Si limitano piuttosto – con uno sguardo che non potremmo che definire “normale” – a parodizzare ciò che la voce robotica tenta di raccontare (anch’ella con una monotonia nient’altro che “normale”) e ad agire, più che come un attore dimentico della macchina e perfettamente calato nella storia e nel personaggio, come delle svogliate ombre cinesi, come degli anti-teatrali scarabocchi che non disdegnano nemmeno lo sguardo in camera.
Nello stesso modo in cui un alunno annoiato, se gli viene chiesto di disegnare una casa, si limiterà a tracciare un quadrato sovrastato da un rettangolo, così agisce questo gruppo di comparse senza brio. Volonté, totalmente aderente allo spirito del collettivismo e perfettamente calato nella logica del “tutti comparse, tutti ingranaggi”, non appare che in qualche scena, trattato dalla telecamera come un semplice accidente, come se essa stesse catturando casualmente un passante sulla strada che sta riprendendo.
Un esempio sarà utile. In una delle scene iniziali, la voce fuori campo parla del tipico modo di procedere e di concludersi degli scioperi e delle proteste. Sulla scena non ci sono che una macchina in ripresa panoramica, un prato, Volonté vestito da soldato nordista (la polizia), un uomo vestito da signorotto del vecchio west (il padrone, il sindacalista aperto al compromesso e revisionista: due facce della stessa medaglia), due ragazzi, uno vestito da indiano e l’altro da contadino (i lavoratori), due signore (una la moglie del padrone, l’altra non è chiaro). Mentre la voce parla di una normale dinamica di sciopero, in cui all’azione collettiva dei lavoratori seguono degli accordi tra padroni/sindacati e polizia, che si concludono in un contentino e nella ripresa delle attività, le immagini interpretano sciattamente la scena in questo modo: la processione si muove, finché un lavoratore non si ferma ogni due passi e una delle due donne gli dà da bere; il lavoratore si ferma (lo sciopero), poi l’altro, e mentre la polizia sta cominciando a fare violenza su di lui per farlo rialzare, il padrone/sindacato gli dice di fermarsi, che basterà dargli una monetina e farlo poi ripartire per il «campo di concentramento». Così succede, e la processione riparte.
Articolato in diverse parti, ognuna delle quali improntata in maniera propria e spontanea su un tema principale (il maoismo, la Jugoslavia, il ’68, il revisionismo…), il lavoro del collettivo tenta di offrire una risposta al «Che fare?» di leniniana memoria: che fare con il cinema? Che fare con la rappresentazione, dal momento che una società rivoluzionaria richiede forme di espressione nuove ed ostili a quelle della società borghese? L’effetto è quello di un vero e proprio attentato: Godard-Vertov distrugge fisicamente la pellicola mentre le immagini scorrono; un attore-comparsa che si finge il protagonista di un western proiettato in sala guarda in macchina e parla col pubblico ammettendo di volerlo catturare; le macchine da presa compaiono nella scena mentre riprendono gli attori-comparse; gli attori-comparse parlano ognuno la propria lingua, dal francese all’italiano, dall’inglese al portoghese.
Molti definiscono Vento dell’est un “cine-saggio”, che tuttavia, secondo alcuni, rischia di “infastidire lo spettatore, per costringerlo ad esercitare una coscienza critica“, ma impiegando una terminologia dalla “portata socio-culturale talmente marcata da penalizzare un proposito di universalità” (Federica Maragno). Quindi, quello che si pone come un cine-saggio pedagogico ad impronta ideologica maoista, sarebbe di per sé accessibile solamente ad una classe intellettuale forgiata da determinate letture, fallendo inoltre dalla prospettiva dell’invecchiamento delle tematiche e della loro “attualità”, che oggi ci sembra definitivamente scomparsa. Lo sforzo sarebbe limitato, e quindi vano, tanto dalla prospettiva spaziale quanto da quella temporale. Secondo Niccolò Rangoni Machiavelli, Godard «non fa cinema, fabbrica opuscoli cerebrali per intellettuali da salotto. Non può credere veramente di smuovere le coscienze operaie con queste inaccessibili e insostenibili grammatiche estetico/politiche».
Evidentemente una lettura di questo tipo non coglie la ragione ultima dell’opera e nemmeno i suoi meccanismi di svolgimento. Il “grande backstage” di Godard-Vertov non si accontenta di “leggere” ed interpretare Marx e il marxismo rivoluzionario, poiché il suo è lo scopo anti-intellettualistico e rozzamente pratico di “usare” Il Capitale per rispondere al “che fare col cinema”. Sbaglia un celebre critico come Peter Wollen quando afferma che la sua lotta contro “le fantasie, le ideologie e l’estetica” del vecchio cinema avviene attraverso ulteriori strumenti intellettuali, ribelli ma che possono esistere solo “in relazione con il resto del cinema“. Usando le parole di Luca Biscontini, non si trattava di fare “film politici“, ragionanti, comunicanti e dottrinali, ma di “fare film politicamente“, vale a dire in maniera intollerabile, urticante, illeggibile e irriducibile ai totem rituali della rappresentazione cinematografica, di per sé serva del capitalismo e di una logica alienante.
La forma cine-saggistica della pellicola non deve far pensare alla linearità del trattato, poiché essa è più simile ad una “pedanteria”, intollerabile in quanto tale, che sovverte il suo ruolo pedagogico e si dedica ferocemente alla monotona e martellante lettura, “dettatura” del sistema, all’atto di disturbo e sfondamento del sistema dall’interno della sua stessa tecnica prediletta (il cinema) in modo da bucare la tela e sfociare finalmente in un’alternativa rivoluzionaria, un’alternativa alla quale si arriva a tentoni, per devastazioni progressive e sragionate, e non con il chiaro progetto di una contro-cultura.
Godard rivolta contro il capitalismo l’arma tradizionale di quest’ultimo, ciò che Schumpeter chiamava “distruzione creatrice”. Al grido di “Ce n’est pas une image juste, c’est juste une image”, il cinema dell’auto-rinnegatosi-Godard non ricerca un’idea sublime di rivoluzione, non si oppone all’ideologia dominante attraverso un’altra ideologia, come potrebbero lasciare intendere i continui riferimenti alla “teoria” di Mao, del cinema sovietico, dei movimenti operai, del narcisismo intellettuale post-marxista. Esso cerca “giusto un’immagine”, “un’immagine qualsiasi“, nelle parole di Deleuze, una serie di scorci vagabondi sul presente sui quali non ha senso firmarsi “Jean-Luc Godard”, poiché si tratta semplicemente di riprese dello sclerotismo del sistema, senza Arte né Parte, senza dogma e senza spirito, ma ricche di ferocia distruttiva e potenzialità rinnovante. Il cinema collettivista, tacciando d’infamia l’autorialità, libera il cinema dalla rappresentazione borghese di un mondo, di una cultura, che può e deve essere altro.
Nelle parole di Massimiliano Schiavoni, Vento dell’est è “la storia di un film impossibile da fare“, un film senza teoria ma alla ricerca di nuovi criteri. Il film rivoluzionario è in grado di rimettere in discussione tutti gli apriorismi dello status quo e di farlo attraverso una non-logica che sfugge senza appigli all’incasellamento della cultura dominante: la sperimentazione, il laboratorio di uno scienziato pazzo. “Potevo farlo anche io”, del tutto casualmente e distrattamente, è un principio in parte corretto.
Un cinema che voglia dirsi rivoluzionario non può arroccarsi sui mezzi e sulle modalità di produzione del nostro presente tardo capitalista. Esso deve piuttosto rimettere in discussione tutta la politica, tutta l’economia, tutta la società del film, provocare la rabbia e l’irritazione di un pubblico qualsiasi che lì per lì si sentirà offeso, deluso, ma che sottopelle comincerà già ad avvertire il pullulare di forze alternative, di una potenza rivoluzionaria di distruzione di tutto e del contrario di tutto. Il cinema rivoluzionario è ritorno al brodo primordiale e costruzione di un nuovo mondo, non semplicemente un ripassare ed impepare una minestra già pronta.
Vento dell’est (1970), Gruppo Dziga Vertov, disponibile su Prime Video