La lotta contro la caccia alle balene: dal 1975 a oggi
Greenpeace, a partire dal 1975, si è resa protagonista nella difesa e nella tutela dei mari. Solcando mari e oceani, dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, le loro navi si sono attivamente impegnate nell’attacco contro le baleniere al fine di proteggere le aree minacciate dalla pesca distruttiva.
La lotta contro la caccia alle balene rappresenta la campagna più esemplare e caratterizzante di Greenpeace. Essa nasce a partire dal 1975, quando Bob Hunter propone di affiancare la compagnia contro i test atomici con una sfida alle baleniere e affrontare con gommoni le baleniere russe in mare aperto.
Nel 1977, grazie all’aiuto del WWF, acquistano un peschereccio per affrontare le baleniere nel nord Atlantico, battezzandolo “Rainbow Warrior”. La Commissione Baleniera Internazionale (IWC), nel 1982, adotta una moratoria alla caccia delle balene. Nel 1986, la moratoria entra in vigore, ma Norvegia, Islanda e Giappone la violano, con la giustificazione di fare una caccia a “scopi scientifici”.
Italia, Francia e Principato di Monaco sanciscono l’istituzione del Santuario per i cetacei nel Mar Ligure, che sarebbe dovuto nascere nel 2002, con lo scopo di proteggere le specie e gli ecosistemi marini dagli impatti delle attività umane. Nel 2014, la Corte Costituzionale di Giustizia dichiara illegale la caccia “scientifica” alle balene, condotta per anni dal Giappone. Nel 2018, il governo giapponese comunica l’uscita dall′ IWC per riprendere la caccia a scopi commerciali.
I Poli come indicatori naturali di salute
Nella difesa del nostro pianeta, dall’Artico all’Antartico, Greenpeace si è inoltrata fino alle zone più estreme della terra. I Poli rappresentano degli indicatori naturali dello stato di salute del nostro pianeta; per primi hanno mandato al mondo i segnali d’allarme che oggi costituiscono la questione più preoccupante. L’istituzione di Santuari marini, aree proibite a qualsiasi tipo di attività umana, rappresentano la soluzione migliore per la salvaguardia dei due Poli.
Il Mediterraneo
Per quanto riguarda il Mediterraneo, esso rappresenta l’1% dei mari del Pianeta, ma allo stesso tempo ospita il 9% della biodiversità marina di tutto il mondo. Un patrimonio estremamente prezioso, messo a rischio dalle attività umane intensive, quali la pesca illegale e distruttiva. Al fine di tutelare la biodiversità del Mediterraneo, i governi nel 1999 sanciscono l’istituzione del Santuario dei cetacei, una grande iniziativa che, purtroppo, tale è rimasta senza essere stata messa in pratica concretamente.
Le conseguenze delle attività umane
Così i cetacei del nostro mare diminuiscono in maniera preoccupante e allo stesso tempo le minacce continuano ad aumentare; l′inquinamento organico e chimico, il traffico marino, le esplorazioni petrolifere per l’estrazione e lo sfruttamento di idrocarburi sono le prime campanelle d’allarme. Queste sono solo alcune delle minacce che stanno mettendo in pericolo il Mediterraneo e, in generale, il nostro Pianeta. L’urgenza di una rivoluzione volta alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle attività marittime è diventata oggi una urgenza primaria per garantire la conservazione delle nostre risorse.
Il Giappone dichiara l′uscita dall′IWC e riprende la caccia
Come accennato, nel 2018 il Giappone lascia l’IWC e riprende la caccia alle balene per cosiddetti “scopi commerciali”. Ciò significa che, a partire da luglio 2019, le baleniere giapponesi tornano in mare a uccidere i grandi cetacei. La decisione del governo di Tokyo è stata annunciata dopo anni di battaglia all’interno dell’IWC affinché autorizzasse la caccia controllata e “sostenibile”. Di positivo solo l’impegno di Tokyo a limitarsi a specie relativamente abbondanti e solo nelle acque dell’arcipelago e nella zona di pertinenza economica esclusiva giapponese.
Yoshihide Suga, segretario di gabinetto del governo di Shinzo Abe, ha spiegato che l’ultima riunione dell’IWC “Ha reso palese che all’interno dell’organizzazione non è possibile neanche la coabitazione di Paesi con visioni differenti”. Ed è proprio Tokyo che da anni contesta la “politicizzazione” della Commissione Internazionale che si sarebbe arresa a organizzarsi come il WWF e Greenpeace, che hanno portato l’IWC a tradire il “doppio mandato” originario che accostava la protezione alla caccia sostenibile.
Dal fronte opposto, le associazioni ambientaliste, come WWF, Greenpeace e IFAW (International Fund for Animal Welfare) hanno cercato di esortare i sessantasei membri della Commissione a opporsi alla proposta del Giappone di istituire un Comitato per la caccia sostenibile alla balena. La Commissione, riunitasi a Florianopolis il 14 settembre 2018, al fine di “prendere decisioni su questioni che potrebbero avere un impatto significativo sul futuro delle balene, sulla caccia ai cetacei”, rivela che la proposta controversa del Giappone minerebbe la moratoria sulla caccia alle balene oggi in vigore.
Ma, purtroppo, neanche WWF e Greenpeace sono riusciti a vincere tale opposizione e il Giappone è tornato a solcare i nostri mari.
Quali sono le conseguenze per il nostro pianeta?
Il principale fattore di perdita di biodiversità animale e vegetale sono la distruzione, la degradazione e la frammentazione degli habitat, causate dai cambiamenti climatici; dall’inquinamento delle attività umane che hanno alterato i cicli vitali per il funzionamento dell’ecosistema; la caccia e pesca eccessive e indiscriminate, che aggravano situazioni già a rischio per la degradazione degli habitat.
La consapevolezza del nostro patrimonio
Il ritiro del Giappone dall’IWC sottolinea che, ancora oggi, non vi è la consapevolezza di cosa ciò possa implicare per il nostro futuro. Infatti, come già accennato, le profonde alterazioni della diversità provocate a livello locale e globale, hanno importanti conseguenze sull’ecosistema, ma anche sulla nostra società. Pensare che la biodiversità riguardi solo il biologo appassionato di specie rare, o il ricercatore, è assai superficiale e limitante. Tale minaccia, in realtà, riguarda la qualità della vita e la sopravvivenza di ciascuno di noi. La perdita di biodiversità ha un impatto economico sulla società, in quanto comporta la riduzione delle risorse di cibo, acqua, energia, materiali da costruzione, e anche di risorse genetiche e di medicinali.
Le popolazioni naturali, interagendo tra loro, formano ecosistemi che costituiscono il principale meccanismo di riciclo dell’aria, acqua e nutrienti indispensabili per la vita sulla terra. La biodiversità fornisce una serie di servizi che assicurano aria pulita e acqua potabile. Le foreste e gli oceani assorbono i sottoprodotti delle attività agricole e industriali rallentando l’accumulo nell’atmosfera di anidride carbonica e di altri gas responsabili dell’effetto serra e del cambiamento climatico globale. Se fino a poco tempo fa la presenza di questi ambienti naturali ha garantito una relativa stabilità del clima, permettendo l’evolversi della vita umana, il futuro è compromesso dalle nostre stesse attività.
Le conseguenze della perdita di biodiversità riguardano, quindi, non solo la qualità della vita ma la possibilità della vita stessa sulla terra. Ed è proprio “l′ignoranza sulle conseguenze ultime delle nostre azioni di danneggiamento degli ecosistemi e sulla loro reversibilità” la prima sfida che dobbiamo vincere.