La segregazione razziale: un percorso nella Settima Arte

Molti di noi non sanno cosa significhi. Non conoscono il disprezzo di chi giudica osservando il colore della tua pelle. Ma il razzismo e le sue conseguenze sono purtroppo parte integrante della nostra società. Una piaga che ha colpito tanti, troppi uomini e che vede nella popolazione africana e afroamericana due dei suoi bersagli prediletti. Una piaga che ha attraversato epoche, evolvendosi, passando dalla schiavitù alla segregazione razziale, alla discriminazione. Un fenomeno a cui anche il cinema ha guardato, tentando di dare voce a chi ormai da tempo immemore prova a opporsi, a lottare nel nome di una parità che tuttora fatica a risultare raggiunta.

Ecco allora un breve percorso all’interno di quattro pellicole che nell’ultimo decennio hanno mostrato uno dei lati più bui della razza umana; quattro pellicole profondamente diverse, ma accomunate dallo stesso grido di libertà e uguaglianza.

1) 12 anni schiavo: la sottomissione

File:Steve McQueen at TIFF 2013 (cropped).jpg - Wikimedia Commons

Sottratto alla sua vita, alla famiglia, all’affetto dei suoi cari; ingannato, imprigionato, reso schiavo; umiliato, maltrattato, ma mai abbattuto. La prima tappa di questo percorso inizia con una storia triste, una storia vera, la storia di Solomon Northup. Un uomo come tanti, privato della suo essere uomo e costretto nella condizione di bestia; un uomo che non ha voluto arrendersi, lottando per dodici lungi anni, piegato nel corpo ma non nello spirito. Quella di Solomon è solo una delle numerose esistenze fatte a pezzi dalla segregazione razziale; una delle poche che  hanno potuto essere raccontate per bocca di un sopravvissuto e che il cinema ha voluto omaggiare per mano del regista Steve McQueen.

Presentato al grande pubblico nel 2013, 12 anni schiavo basa la propria narrazione sulla biografia omonima di Solomon Northup, edita nel 1853, immergendosi nella prima metà del XIX secolo per tentare di raccontare la terribile esperienza vissuta da Solomon circa vent’anni prima della guerra di secessione americana.

Nel 1841 Solomon è un violinista di Saratoga Springs, un musicista dotato di grande talento, un uomo felice, libero, sposato e con figli; la sua unica colpa è il colore della sua pelle nera. La rovina arriva come un fulmine a ciel sereno, vestendo bene, parlando in modo garbato, insidiandosi nelle ingannevoli proposte di due falsi agenti di spettacolo. Solomon perde la propria libertà, subisce droga, frusta e catene; ma il suo incubo è solo all’inizio. Il suo futuro sono le piantagioni di cotone, sono anni di lotta per la sopravvivenza, di soprusi, di vane speranze, di resistenza fisica e mentale. Anni di lotta contro tutto e tutti, in attesa di un cambiamento, di un qualsiasi appiglio al quale aggrapparsi per tornare a vivere.

Pur condita da alcune licenze narrative, la pellicola di Steve McQueen denota grande rispetto per la biografia originale da cui è tratta, traducendola in immagini e affidando al grande schermo un’occasione di ricordo e riflessione. Un’occasione che ci permetta di guardare a una realtà che appare forse distante, relegata a una dimensione di fiction, ma che, al contrario, lascia ancora numerosi strascichi nella nostra società. Una realtà che non può essere riassunta nella semplicistica contrapposizione bianco contro nero, ma deve servire a individuare il germe di un pensiero malato, divisivo e, purtroppo, non ancora debellato.

2) Django Unchained: una fiaba di vendetta

Quentin Tarantino comincia là dove Steve McQueen si era fermato: dalle catene, dai vincoli di un’ingiusta prigionia. Non punto d’arrivo, ma di partenza; non agognato traguardo, ma scintilla scatenante. Django Unchained varca il labile confine che separa l’umiliazione dalla voglia di rivalsa, raccontando una storia di impietosa vendetta e liberazione nel sangue.

Django è un povero “negro”, feccia in un mondo di sporcizia, ridotto all’obbedienza, alla frusta, all’arroganza dell’uomo bianco. L’avvento di un cacciatore di taglie segna l’inizio del cambiamento, consegnando allo schiavo la possibilità di alzare la testa, spogliarsi della paura e riprendere possesso della propria vita. Comincia per Django un’avventura nuova, a base di pistole, violenza, scavo nel proprio passato e sguardo speranzoso per un futuro divenuto possibile. Il dottor King Schultz, suo liberatore e compagno di viaggio, lo inizia alla “nobile” arte della caccia ai criminali, attraverso il caldo afoso delle  piantagioni di schiavi e il freddo pungente delle lande nordamericane; per insegnare a Django cosa significa uccidere, togliere la vita a sangue freddo, privare un uomo della libertà di scegliersi il proprio destino.

Django-Unchained-Leonardo-DiCaprio | 22860 | Flickr

Sangue e proiettili mostrano però solo la superficie di un’opera maestra che è prima di tutto ricordo, emozione, amore. Il vero motore del racconto non è il desiderio di morte, ma la ricerca di nuova vita, la ricerca di una donna. Perché Django Unchained è una fiaba, forse atipica, violenta, dolorosa, ma pur sempre una fiaba. La favola del principe e della principessa in pericolo, la favola di Siegfried e dell’amata Brünnhilde. Non ci sono montagne da scalare, nessun drago da sconfiggere.

A dividere i due amanti è l’arretratezza di una società malvagia, la frusta, la sottomissione, la viltà di tristi aguzzini, bianchi o neri che siano.

Tarantino disegna un western atipico, pescando dalla sua tavolozza i colori di un’opera che difficilmente verrà dimenticata. Attraverso scelte registiche di matrice leoniana e improbabili accostamenti musicali, il maestro dirige un’opera matura, cruda, reale. Un’opera che galleggia tra etica e amoralità, desiderosa di ferire e incantare, facendosi rappresentazione filmica dell’atavica legge del taglione all’interno di un mondo in cui, probabilmente, non è rimasto spazio per la pietà.

3) Il diritto di contare: segregazione razziale e rivendicazione femminile

Taraji P. Henson | Genevieve | Flickr

Non basta la vendetta, non bastano sangue, proiettili o morte a conquistare uguaglianza e diritti. La storia della segregazione razziale passa anche attraverso il coraggio della non violenza, della rivendicazione, della volontà di dimostrare il proprio valore. È il caso di Katherine Johnson, scienziata afroamericana che negli anni Sessanta del secolo scorso ebbe la forza di sfidare razzismo  e sessismo per imporsi come una delle migliori collaboratrici della NASA. La sua vita e la sua perseveranza hanno ispirato la scrittrice Margot Lee Shetterly, autrice del libro Il diritto di contare, dalla cui narrazione nasce l’omonimo film del 2016.

Diretta da Theodore Melfi, la pellicola ci racconta di Katherine e della sua evoluzione, partendo dal 1961, dal suo lavoro come calcolatrice per la NASA e dal suo trasferimento allo Space Task Group, incaricato di programmare il lancio di una capsula nello spazio e rispondere ai progressi sovietici. Katherine è l’unica donna di colore dell’edificio, impossibilitata ad usare i bagni, riservati ai soli bianchi, disprezzata dai colleghi che le mancano di rispetto.

Ma la scienza non guarda al colore, al genere, al fisico. La scienza non guarda in faccia nessuno e Katherine sa di poter contare su capacità matematiche fuori dal comune; capacità necessarie a farsi largo, a oltrepassare i muri del pregiudizio, a guadagnarsi una vita e un sogno impossibile. La storia di Katherine è la storia di tante donne come lei. Donne costrette a lottare senza armi, contando esclusivamente sulle proprie capacità, ignorando l’arrogante giudizio di chi si crede superiore. Melfi riesce a restituire con efficacia il sapore amaro di una vita decisa a distruggere ogni briciolo di dignità umana. A essa risponde la forza di donne decise a non mollare, a non arretrare di un centimetro, a prendersi ciò che spetta loro senza timore, guidate dal desiderio di fare qualcosa di grande.

A chi cercava di piegarla Katherine ha risposto con il suo lavoro, a chi la disprezzava ha risposto con l’acutezza della propria mente, a chi tentava di infangarla ha risposto raggiungendo le stelle.

4) BlacKkKlansman: la giustizia

Sottomissione, vendetta, rivendicazione. Il quarto e ultimo tassello del percorso è rappresentato dalla giustizia, dal potere nero incarnato nell’autorità, nella forza dell’ordine. In poche parole BlacKkKlansman.
Diretto da Spike Lee e uscito nelle sale cinematografiche nel 2018, il film ci riporta indietro nel tempo, agli inizi degli anni ’70; in un mondo dove l’integrazione è ancora utopia e la lotta bianchi contro neri imperversa più che mai.

Alcune immagini tratte dall’immortale Via col vento segnano con originalità l’incipit dell’opera, mentre un delirante discorso d’odio e razzismo introduce lo spettatore nell’atmosfera dominante della pellicola.
Il successivo stacco ci trasporta poi nella contea di El Passo in Colorado ed è qui, nella cittadina di Colorado Springs, che di dispiega il racconto del regista.
Ron Stallworth è giovane detective in erba  selezionato per favorire l’integrazione nel corpo di polizia locale; ma il suo impegno, radicato in una profonda vocazione, supera ben presto ogni tipo di aspettativa. Ron infatti, ansioso di dimostrare il suo valore, passa in poco tempo dall’archivio all’intelligence, iniziando ad investigare sui loschi affari del Ku Klux Klan.  Ad aiutarlo in questa battaglia è il collega ebreo Flip Zimmerman, incaricato di impersonarlo negli incontri con l’organizzazione. È il primo passo di un’indagine coraggiosa e dai numerosi risvolti, un’indagine che è lotta personale e desidero di giustizia.

Quello di Spike Lee è film sociale di grande portata, fotografia estremamente attuale di una spaventosa realtà discriminatoria. Il regista, servendosi di personaggi dal forte valore simbolico, tenta di realizzare un accurato quadro degli schieramenti in gioco. Da un lato il razzismo più becero degli esponenti del Ku Klux Klan, dall’altro il fuoco ribelle degli studenti afroamericani stanchi e frustrati. Nel mezzo il giovane Ron, idealista e sostenitore del valore della legge e della giustizia; convinto che la battaglia per il popolo nero non debba essere combattuta con le stesse armi di chi l’ha assoggettato.

BlacKkKlansman è un film onesto e verosimile. Un film che trascende la propria dimensione cinematografica e la cui forza risiede in una sceneggiatura di grande livello. Una scrittura in grado di mescolare tensione, divertimento e riso amaro, senza mai rinunciare alla propria anima di denuncia e critica sociale. Una critica che, nei minuti finali, abbandona la finzione narrativa per farsi specchio dell’odierna realtà statunitense e travolgerci come un fiume in piena recando seco una triste verità: poco o nulla è davvero cambiato.

Quattro pellicole. Quattro storie di vita, così diverse, così simili. Storie di sofferenza, lotta, affermazione. Storie che il grande cinema ha saputo raccontare perché non andassero perdute.

Perché razzismo e segregazione sono elementi concreti di un presente che ancora terrorizza; elementi di una società che non sembra trovare una via d’uscita dal buio tunnel dell’odio e dell’indifferenza. Una società in cui avere la pelle nera è, spesso, ancora un problema; a dimostrarlo un esperimento condotto su alcuni bambini di colore da due psicologi afroamericani. Un esperimento di cui il prossimo articolo parlerà nel dettaglio.

 

 

 

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