Le opere d’arte e il loro valore come fonti iconografiche

Le produzioni figurative, quali la scultura e soprattutto l’arte pittorica, oltre ad avere un valore estetico-artistico, possono possedere anche uno straordinario valore documentario. Non a caso quando si studia la storia spesso si sente parlare di fonti iconografiche, intendendo con ciò tutte quelle fonti che attestano e riportano informazioni storiche. Non le comunicano in modo scritto, bensì in modo iconico, ossia attraverso il medium dell’immagine, sia essa dipinta, disegnata, incisa, scolpita oppure fotografata. 

In questo modo, le immagini del passato – fotografie, dipinti, miniature, sigilli incisi, bassorilievi ecc. – dovrebbero essere per lo storico delle preziosissime fonti di studio delle società del passato. Questo perché esse rivelano usi, costumi, prassi quotidiane e possono attestare avvenimenti storici o evoluzioni di tecniche.

La storia della tecnica attraverso le miniature

Più si procede a ritroso con i secoli, meno le fonti iconografiche sono numerose, ricche e precise. Sicuramente però, una delle tipologia di fonti iconografiche più importanti e frequentate dagli storici medievalisti e modernisti sono le miniature. Il grado di precisione di queste  è da attribuire al fatto che si tratta anzitutto di illustrazioni riferite sempre a un campo circoscritto. Questo può essere quello della liturgia – nel caso delle miniature dei codici liturgici – ma anche la zoologia o la botanica, come nel caso dei cosiddetti “bestiari” ed “erbari”. 

Scena di aratura, miniatura di un codice inglese di XI sec. (British Library)

Talvolta le miniature possono anche attestare, con una certa precisione grafica, l’adozione di determinate tecniche. È questo il caso di tutte quelle che ritraggono scene lavorative quotidiane. Un esempio tra i tanti è il caso di una miniatura inglese – nell’immagine sopra – databile all’XI secolo. Questa ritrae una scena di aratura di campo, con una precisione e una cura per il dettaglio sorprendenti, soprattutto se pensiamo al secolo.

La nascita dell’aratro pesante tratteggiata da una miniatura

Nell’immagine, infatti, si vede nitidamente un gruppo di quattro buoi che, guidati da un primo uomo davanti a loro, trainano un aratro. Quest’ultimo è completo di ruota per facilitarne la mobilità, e di coltro, vomere e versoio per il solco del terreno. L’aratro infine termina in un doppio manico tenuto da un uomo che, a sua volta, è seguito da un terzo uomo che si sta occupando di gettare i semi nei solchi del terreno lasciati dal passaggio del mezzo. 

Occorre quindi sottolineare la portata documentaria e storica della miniatura in questione, poiché essa ritrae un esemplare di aratro pesante, che fu una della grandi rivoluzioni tecniche compiute nel Medioevo. Che si tratti di un aratro pesante lo si evince dal numero di bestie che lo trainano – ben quattro buoi – ma anche dalla maggiore complessità del macchinario. Questo, del resto, lo vediamo riprodotto in numerose altre miniature medievali tra il XIII e il XV secolo, ma tale riproduzione in particolare è piuttosto significativa, dal momento che le prime attestazioni dell’aratro pesante in centro e nord Europa sono databili proprio all’XI secolo.

Federico II a cavallo tra due civiltà 

Le immagini utilizzate come fonte documentaria attestano dunque l’adozione di determinati meccanismi e procedimenti, permettendo così di formulare una  ricostruzione iconica dello sviluppo storico della tecnica. Spesso, però, si rivelano anche importanti attestazioni di avvenimenti storici, talvolta di carattere epocale, ma frequentemente anche di carattere aneddotico. 

Proprio in questi due ultimi casi rientrano diverse miniature che ritraggono Friedrich Ruggero Hohenstaufen,meglio conosciuto come Federico II di Svevia, sovrano del Regno di Sicilia e imperatore di Germania. Noto come lo stupor mundi è uno dei personaggi più importanti del celebre “Buio Medioevo” che poi, alla fine, tanto buio non è.

Federico II e il sultano Malilk al-Kamil alle porte di Gerusalemme – miniatura dalla Nova cronica di Giovanni Villani (XIV sec.)

L’iconico incontro di pace e cultura tra Federico II e Malik al-Kāmil

Ora, vi è un episodio in particolare che affascina molto in quanto esempio di dialogo tra culture molto diverse tra loro, quanto vicine e affini storicamente e geograficamente. L’episodio in questione riguarda l’incontro che Federico II avrebbe avuto con il sultano d’Egitto Malik al-Kāmil nel 1229. In quell’anno, infatti, Federico II, dopo l’ennesimo rinvio a partecipare alla crociata, subì la scomunica da parte di Gregorio IX. L’imperatore e re fu quindi costretto a imbarcarsi per la Terrasanta.

Una volta giunto lì però, anziché combattere, Federico, uomo di cultura affasciato dalla civiltà arabo-islamica, si trovò in perfetta sintonia con l’altrettanto colto e tollerante sultano. A questo punto i due, in modo del tutto inatteso e rivoluzionario, anziché innescare l’ennesimo conflitto, trovarono un proficuo accordo, anche commerciale. Il sultano al-Kamil consegnò quindi al sovrano tedesco Gerusalemme, Betlemme e Nazareth. senza versare una goccia di sangue.

Particolare

L’evento determinò lo sdegno dell’intransigente papa Gregorio IX, che rinnovò la scomunica a Federico II e non riconobbe gli accordi ottenuti con il sultano. Resta però la straordinaria attualità dell’evento come esempio di dialogo interculturale. Questo ci conferma quanto non sia sempre vero che, la civiltà cristiano-occidentale e quella arabo-islamica siano sempre state ostili tra loro. Soprattutto riecheggia come spesso, alle spalle di quelli che sembrano in apparenza essere conflitti ideologico-religiosi, vi siano in realtà interessi ben più pratici rispetto alla mera appartenenza religiosa.

Ecco, proprio questo straordinario episodio lo vediamo rappresentato, seppur a distanza di un secolo, in una miniatura della monumentale Nova cronica, scritta attorno alla metà del ‘300 dal mercante e storico Giovanni Villani. In essa si riconoscono nitidamente i copricapi che recano Federico II (a sinistra) e il sultano al-Kamil (a destra).  Questi si stringono la mano nei pressi di quella che riconosciamo essere la porta di Gerusalemme, iscritta nelle mura della città santa.

S. Francesco e il dialogo tra Cristianesimo e Islam 

Peraltro Malik al-Kamil non era affatto nuovo a queste aperture all’Occidente. È infatti passato alla storia l’incontro prolungato che lo stesso sultano ebbe, alcuni anni prima con lo stesso San Francesco. Fu il santo stesso – durante una spedizione in Terrasanta – a voler incontrare il sultano per professargli, pacificamente, il Vangelo. Al-Kamil, secondo quanto riporta la tradizione, avrebbe ricevuto Francesco presso il suo accampamento e i due avrebbero avuto un lungo dialogo durato per giorni.

Senza entrare in conflitto e senza tentare di convertirsi l’un l’altro, bensì semplicemente confrontando la loro fede in modo pacifico e attraverso quello che oggi chiameremmo un dialogo inter-religioso. Leggenda vuole che, durante l’incontro, San. Francesco, per dimostrare la fermezza della sua fede, avesse attraversato a piedi nudi una brace ardente. La stessa immagine ci viene infatti mostrata qualche decennio dopo, negli anni ’80 del ‘200, da Giotto nei suoi affreschi sulle storie di San Francesco della Basilica Superiore di Assisi. 

Giotto di Bondone, Francesco davanti al Sultano al-Kamil (o Prova del fuoco), dagli affreschi della basilica superiore di Assisi (anni ’80 XII sec.)

Iconografia di un parricidio?

Federico II è protagonista anche di un’altra importante miniatura, contenuta sempre nella Nova cronica del Villani. Si tratta di un’opera che sembrerebbe porsi a sostegno di una delle due principali tesi sulle circostanze e le cause della morte dell’imperatore, avvenuta nel 1250. Tali ipotesi circolavano nel ‘300, ma ancora oggi non necessitano di essere illuminate con chiarezza. Una di queste, in particolare, era sostenuta dai Guelfi al fine di screditare la memoria del loro avversario Federico II. La leggenda, infatti, ipotizza che il re e imperatore sia stato ucciso dal figlio Manfredi. 

Manfredi soffoca Federico II (miniatura dalla Nova cronica di Giovanni Villani, XIV sec.)

Questa versione sulla morte di Federico II mostra come Manfredi abbia deciso di accelerare la successione al trono. Questo accadde quando Federico II fu nominato reggente del Regno di Sicilia, e stava aspettando l’arrivo dell’altro figlio – e vero erede designato-  Corrado. In quel frangente, Manfredi avrebbe deciso allora di attuare un piano per uccidere il padre, approfittando dell’assenza di Corrado, ancora in Germania. Così si pensa che, ottenuta la complicità  del cuoco di corte, Manfredi abbia somministrato quotidianamente leggere dosi di arsenico, che avrebbe portato Federico II a morire lentamente.

Verità o Leggenda?

Tuttavia il progetto rischiava di protrarsi troppo a lungo, allorché Manfredi decise di eliminare il padre direttamente, senza troppi indugi, soffocandolo con un cuscino. Non solo, ma lo fece in modo talmente subitaneo da provocargli la lesione del setto nasale. Quest’ultima venne infatti riscontrata nelle analisi anatomopatologiche eseguite sui resti di Federico II, attualmente sepolto nella cattedrale di Palermo.

Che si tratti di verità o leggenda, resta il fatto che la sua circolazione si era diffusa tra l’opinione pubblica già nel ‘300. Tanto da essere riportata in una cronaca storica (appunto la Nova cronica) corredata da una corrispettiva miniatura. E lì si vede molto bene il ritratto di Manfredi intento a soffocare il padre. 

La cometa di Halley in un ricamo medievale

Come si diceva, talvolta le fonti iconografiche possono testimoniare avvenimenti storici, altre volte sono dotate di un carattere più aneddotico, che non le rende tuttavia meno importanti. Anzi, proprio perché illustrano un aneddoto, sono in grado di rilevare anche aspetti e momenti della vita quotidiana del tempo. In questo modo possono cercare di garantire una ricostruzione più genuina delle società del passato.

Vi sono però anche casi eccezionali in cui una fonte iconografica riporta attestazione di un evento fondamentale nella storia di un Paese. È questo il caso, ad esempio, del celebre arazzo di Bayeux (che in realtà sarebbe più corretto chiamare “ricamo” ). Si tratta di un immenso telo ricamato lungo circa 70m, realizzato tra il 1070 e il 1080 da una bottega di ricamatrici attiva nel monastero di Canterbury. Queste le testimonianze più accertate sull’opera, che è attualmente conservata in una teca di cristallo presso Bayeux (in Normandia). 

Tra storia e aneddoti

Il ricamo è ben noto agli storici medievalisti, poiché sarebbero rappresentati gli episodi salienti della successione del Duca Guglielmo di Normandia (noto poi come Guglielmo il Conquistatore) a Edoardo il Confessore. In palio il  trono d’Inghilterra, alle fondamenta della monarchia inglese. Lungo tutta la superficie del telo infatti, si distinguono nitidamente scene ricamate ed episodi accompagnati da didascalie in latino.

Queste conducono infine alla celebre Battaglia di Hastings, del 1066. Ma la straordinarietà delle rifiniture consiste in un ricamo di tale perizia da renderle estremamente dettagliate. Pur nella loro schematicità, infatti, le minuzie brillano nel ritrarre vesti, armamenti e anche comportamenti rituali del tempo. Tra la storicità dell’evento rappresentato, vi sono però anche scene di carattere aneddotico particolarmente suggestive. 

Particolare dal ricamo di Bayeux (1070-1080 ca.), scena dell’avvistamento della cometa di Halley

L’avvistamento della cometa

Per esempio, accanto alla scena dell’incoronazione del Duca Harold, si vede molto bene un episodio in cui un gruppo di cortigiani guarda e indica verso l’alto un oggetto sferico, seguito da una coda di luce. L’episodio è poi accompagnato da una didascalia che recita chiaramente: ISTI MIRANT STELLA (Questi guardano una stella). Si tratta dunque di una scena di avvistamento di una probabile cometa. Un episodio attestato anche dalle fonti del 1066, anno in cui è ambientata la narrazione del ricamo. Tuttavia non si tratta di un evento mistico o inventato, ma riguarderebbe proprio l’avvistamento della cometa di Halley che può essere visibile nei cieli ogni 76 anni circa.

E la conferma che si tratti di un evento reale ci proviene non solo dalle cronache del tempo, che narrano di una stella mobile visibile nei cieli d’Inghilterra, ma dagli stessi studi astrofisici. Stando ai calcoli effettuati sulla base della frequenza con cui la cometa di Halley si palesa, pare proprio che questa si rese visibile nei cieli del Nord Europa tra marzo e luglio del 1066. Le cronache di quell’anno, infatti, datano gli avvistamenti proprio ad aprile. 

Fonti iconografiche: precauzioni d’uso

Tuttavia, occorre anche precisare che le fonti iconografiche non devono essere assunte come depositarie di una verità storica assoluta. Infatti, come osserva Marc Bloch in Lavoro e tecnica nel Medioevo, dato il loro carattere iconico e dunque mimetico, le immagini potrebbero sembrare a prima vista delle fonti più sicure e precise. Tuttavia bisogna fare molta attenzione al loro utilizzo, sottoponendole ad un rigoroso esame critico circa la loro bontà documentaria.

Anzitutto perché, nel caso delle immagini più antiche, spesso il loro disegno è assai approssimativo. Dunque in primo luogo esse potrebbero essere viziate da una scarsa precisione nella prassi realizzativa. Inoltre l’esame sulla validità storica delle fonti iconografiche, soprattutto quanto queste si configurano anche come opere d’arte, deve tener conto del fatto che un’immagine artistica non è mai neutra. Quest’ultima è infatti sempre influenzata dalle intenzioni artistiche, emotive e ideologiche dell’autore. 

Domenico Ghirlandaio, Madonna con Bambino, seconda metà XV secolo, Museo del Louvre

L’iconografia di Cristo tra idealizzazione e verità storica

Molto spesso, infatti, la veridicità di ciò che un’opera d’arte ritrae deve essere considerata alla luce dell’iconografia che adotta e del suo grado di artisticità. Giusto per fare un esempio, nonostante si tratti di un caso limite, analizziamo la storia delle rappresentazioni cristologiche. Si può qui osservare come, nel corso degli sviluppi della sua iconografia, la figura del Gesù bambino assuma una fisionomia sempre più idealizzata. Quasi sempre infatti, Gesù neonato viene rappresentato con pelle bianchissima e capelli biondi, talvolta anche con occhi azzurri, così come la stessa figura di Maria. 

Andrea Mantegna, Madonna con Bambino, 1480 ca, tempera su tela, Accademia Carrara (Bergamo)

Se però si guarda alla storicità della figura di Cristo, bisogna anche considerare che nacque, visse e fu attivo tra Nazareth e Gerusalemme, in quello che tra I sec a.C. e I sec d.C. era il Regno di Galilea (l’attuale Israele circa). Dunque è più plausibile che avesse pelle e capelli molto scuri, data la collocazione geografica e l’appartenenza etnica ebraica. Ora, che si tratti di capolavori artistici è fuori discussione, come possiamo ammirare nelle due versioni qui riportate dell’iconografia della Madonna con bambino del Ghirlandaio e di Mantegna. Ma, proprio perché si tratta di pure opere d’arte, non possiamo certo assumerle come fonti storiche.

Falso storico di un’epidemia 

Ecco che allora l’esempio dell’iconografia cristologia ci permette di sottolineare quanto sia fondamentale discernere tra l’opera d’arte e la fonte iconografica. La prima infatti è da valutare come opera artistica in quanto tale, la seconda da considerare invece come attestazione documentaria più o meno plausibile. Anche in questi casi però, la fonte deve essere sempre sottoposta a un rigoroso esame sulla sua validità storica e documentaria.

Particolarmente esemplare, in tal senso, è una miniatura di metà ‘300, contenuta in un codice belga. Questa fu realizzata durante la terribile epidemia di peste che si abbatté sull’Europa dalla metà del XIV secolo (1347/1348). La miniatura ritrae in maniera evidente un gruppo ci cittadini intenti a seppellire presumibilmente dei morti di peste. La scena è carica di una forte tragicità che traspare sia dai volti delle persone, sia dai loro sforzi nel trasportare a spalla le bare.

Miniatura da un codice Belga di metà XIV sec

Ora si sa con certezza che la miniatura è autentica e di provenienza medievale di metà ‘300. Eppure, nonostante la bontà dell’immagine, questa ritrae una maniera di seppellire i morti di peste che in nessuna parte d’Europa è attestata. Inoltre non sarebbe stato possibile praticarla, dal momento che i cadaveri, per evitare la diffusione del contagio, venivano seppelliti in grandi fosse comuni, dalla profondità di circa 20m e diametro di 15m. Non solo, ma queste erano localizzate al di fuori delle mura cittadine, senza l’utilizzo di bare, sia per necessità logistiche – troppi morti in lassi di tempo brevi – sia perché la gente comune, come quella ritratta in miniatura,  non poteva di certo permettersi nel ‘300 una sepoltura con bara.

Come si spiega allora questa rappresentazione se la miniatura è autentica? Si tratta di un’immagine che potremmo definire artistica. L’autore che la realizzò, infatti, non aveva l’intenzione di ritrarre con precisione storica la maniera di seppellire i morti di peste nel ‘300. Bensì  di riprodurre l’orrore e la desolazione dell’epidemia in corso, ricorrendo ad un immaginario funebre. Questo è il sottile filo rosso che lega un’opera d’arte a una fonte iconografica. 


FONTI

M. BlochLavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza (2016)

Pescio C. (a cura di), Dossier Arte 2 – Dal Rinascimento al RococòGiunti

G. Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni (2000)

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