IL POLPO CHE VISSE RIDENDO

Quando mi hai arpionato ridevi sguaiatamente

alla vita, all’amore, persino ai funerali

e ho creduto che fossi essenza postmoderna

distillata in due languidi crateri blu.

Poi ti ho mostrato la Luna, cartografandomi la cassa toracica

e i suoi mari distanti anni luce

e tu ridevi, incessante

perché l’universo si sta raffreddando;

così ti proibii la Treccani, e giurai di salvarti.

Ma tutto in te era scherno, risata, falsità

(genocidi, metastasi, il canto di Ugolino

— persino il tuo scheletro era finto, gonfio, Ikea)

e il mio amore era quello, disperato, della mantide.

Baciandoti sentivo il tuo cranio in ebollizione

che rimuginava, che si trincerava,

e ridendo soffiava in un timido “ti amo”

con cui il padre alla fiera tampona le lacrime del figliolo

barattandolo con un minuto di tregua,

e dietro a quegli occhi sguaiati contemplai il Vuoto dell’astronauta.

Ridesti, quindi, quando ci lasciammo

e ridesti un’ultima volta

a tua unica, insindacabile discolpa

con il coltello ancora sgocciolante di scolaresca

durante la sentenza

prima della sedia elettrica.


 

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