La dystopian novel esiste ancora?

Di Sebastiano Pacchiarotti

Il Novecento è stato un secolo duro per l’umanità: in quei cento anni che hanno visto nascere e cadere i regimi più terrificanti di sempre, gli anni in cui la Terra è stata piagata da due conflitti di proporzioni mai viste, l’epoca in cui il bivio tra la dittatura assoluta e il consumismo sfrenato rischiava di condurre in ogni caso alla perdita di identità delle persone, agli intellettuali si aprivano prospettive inquietanti verso un futuro decisamente poco roseo: si prendeva atto, insomma, della consapevolezza che, per quanto l’umanità avesse apparentemente toccato il fondo, in realtà avrebbe potuto fare anche di peggio. È in questo clima di profonda inquietudine nei confronti del  futuro a cui l’uomo si sarebbe potuto condannare che nasce in Inghilterra il genere letterario della dystiopian novel.

Il contesto storico in cui si situa il capostipite del romanzo distopico, Brave New World (Il Mondo Nuovo, 1932) di Aldous Huxley, è quello del capitalismo spietato delle grandi industrie. Nell’opera di Huxley (dalla quale si deduce che la dystopian novel nasce come sottogenere della fantascienza) l’umanità è ridotta essenzialmente a gruppi di cloni artificiali che costituiscono gruppi di lavoro in un’ottica del profitto spersonalizzante.

Il massimo capolavoro del genere si raggiunge però, inutile dirlo, in 1984 di George Orwell. Il romanzo, scritto a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, abbandona i tratti più fantascientifici tipici di Huxley per dedicarsi ad una prospettiva interamente fantapolitica: il terrificante futuro a cui l’uomo è destinato in quest’opera è quello dominato del regime opprimente e onnipresente del Grande Fratello, e le vicende a cui il protagonista Winston Smith assiste rappresentano una crudeltà che, purtroppo, è per molti aspetti realizzabile.

Il romanzo di Orwell costituisce una delle opere meglio riuscite nel panorama letterario novecentesco: denunciando, in maniera più o meno romanzesca, gli orrori di una distopia neanche troppo lontana dalla realtà che si stava consumando, per esempio, sotto il regime di Stalin, l’autore ha saputo mettere a nudo meglio di chiunque altro l’angoscia degli uomini del suo tempo.

Nei decenni immediatamente successivi la dystopian novel diventa dunque un genere assai fortunato: è infatti un mezzo con cui da una parte si può esprimere una propria paura mettendone in luce gli effetti nel caso in cui si realizzasse, dall’altra può abbondare di elementi fantasiosi in grado di catturare l’attenzione del lettore e farlo riflettere sul messaggio di denuncia che viene espresso. Su questa scia si collocano altri due capolavori: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (un’accesa critica al Maccartismo) e Arancia Meccanica di Anthony Burgess (un’originale riflessione sulla perdita del libero arbitrio).

A noi, uomini del ventunesimo secolo, interessa però sapere una cosa: appurato che la dystopian novel ha avuto, giustamente, un successo strepitoso nel secolo scorso, essendosi sviluppata in quel preciso periodo storico, è possibile che essa abbia ancora un riscontro al giorno d’oggi? Effettivamente il panorama letterario odierno offre ancora esempi di letteratura distopica, e anzi alcuni di essi sono anche diventati dei best seller. Andiamo ad osservarli brevemente.

Tra gli autori che più recentemente si sono avventurati nel romanzo distopico e che hanno avuto particolare fortuna grazie alla riduzione cinematografica delle loro opere si possono ricordare in particolare Suzanne Collins (autrice della saga degli Hunger Games) e James Dashner (autore della saga di Maze Runner). Essi sono accomunati da vari fattori: l’ambientazione in un futuro post-apocalittico (secondo l’ormai più che consolidata prospettiva dell’olocausto nucleare); la lotta per la sopravvivenza; ma soprattutto l’essere rivolti a un pubblico di ragazzi, che si dovrebbero identificare con i protagonisti, anch’essi di giovane età.

Ma quanto può essere efficace rivolgersi a dei giovani che, non riconoscendosi nelle tematiche trattate (perché parlare di un reality show all’ultimo sangue, quando ormai la gioventù di oggi si rivolge sempre meno alla televisione e sempre più a internet?) oppure non considerandole affatto, si lasciano invece trascinare dagli aspetti più fantasiosi, avventurosi e sentimentali delle vicende narrate?

Quanto può essere utile alla società (è questo infatti uno degli intenti principali della dystopian novel: mettere in guardia gli uomini) limitarsi a dipingere un futuro in cui tutto è nelle mani dell’originalità commerciale dell’autore senza che ci sia un qualche riferimento concreto ai pericoli che l’umanità d’oggi corre (per esempio, diventare schiavi dell’imperante rivoluzione tecnologica)?

 

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