Alla ricerca di Dory, o “perché i sequel sono il male”

Quando dico che per me i sequel sono il male assoluto per il cinema la gente mi guarda con quel misto di disapprovazione e compassione che solitamente si riserva a un anziano che sbraita contro la gioventù. E ok, è un’affermazione forte e per molti versi retrograda, se si entra nell’ottica di un cinema che si contamina sempre più con il mondo serializzato delle serie tv, e che arriva persino a produrre ambiziosissimi universi-franchise come nel caso dei cinefumetti. Però, ecco, non è che se domani i vari produttori di cinefumetti decidessero di interrompere tutto io mi metterei a piangere, anzi.

Tagliando i preamboli, il nuovo film Pixar, Alla ricerca di Dory, sequel de Alla ricerca di Nemo del 2003, ha un unico, grosso problema: essere un sequel. Alcuni parlano di scrittura altalenante, personaggi secondari poco incisivi, una protagonista a tratti irritante, ma credo che, volendo astrarre, la pecca principale del film sia proprio quel peccato originale, la decisione di riesumare dall’Olimpo dell’infanzia una pellicola che – diciamocelo – sarebbe stata benissimo da sola.

©2016 Disney•Pixar. All Rights Reserved.
©2016 Disney•Pixar. All Rights Reserved.

Che poi, a voler essere onesti, nel panorama dei sequel-spazzatura Alla ricerca di Dory spicca pure, sia per tempistiche (da Nemo sono passati 13 anni, un’infinità in un’ottica serializzata come quella hollywoodiana) che per originalità. La trama sfugge dai cliché del genere, e fa di tutto per non farsi mettere in ombra dall’illustre capostipite, salvo – e qui arriva il problema – riutilizzare alcuni personaggi che passano da comprimari a protagonisti, e viceversa. Dory funzionava come spalla in Nemo, ma qui, nonostante permetta di affrontare tematiche complesse e narrativamente efficaci, fallisce nel più basilare intento di mantenere alto il ritmo. Ci sono troppi tempi morti, inutili ripetizioni, immediatamente seguiti da sequenze che premono sull’acceleratore senza dare tregua allo spettatore (vedi l’interessante ma lunghissima sequenza finale).

Fortunatamente ci sono lampanti eccezioni all’assioma “i sequel sono il male”, ma purtroppo Dory non è una di queste. Un pensiero fisso ha accompagnato la mia visione, ovvero che, con un altro nome e un’altra identità, Alla ricerca di Dory sarebbe potuto essere un ottimo film. Senza i limiti e i freni imposti da un’eredità così massiccia, il regista e sceneggiatore Andrew Stanton avrebbe potuto osare come osò all’epoca con WALL-E, accentuando magari la componente investigativa del film, oppure quel senso di “follia collettiva” che accomuna molti personaggi-macchietta senza mai diventare tema principale.

Insomma, al contrario di titoli che hanno beneficiato di un universo già costruito alle spalle (ad esempio Toy Story 2 e 3, per rimanere in ambiente Pixar), in Alla ricerca di Dory questo non aggiunge alla trama più di quanto non tolga. Per quanto di buono possa aver fatto, l’ultima fatica Pixar verrà sempre ricordata come “il sequel di Nemo”, senza un’identità propria che ne valorizzi le buone idee alla base.


 

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