DICERIA DELL’UNTORE di Gesualdo Bufalino

A chi lo sa
Questa la dedica con cui Bufalino ha deciso di aprire il suo romanzo, “Diceria dell’untore”. Scritto nel 1951, poi sospeso, ripreso, sospeso di nuovo. Pubblicato nel 1981.

Un’atmosfera cupa, neanche uno spiraglio di luce. Lo definiremmo un libro grigio, se il grigio non fosse il colore dell’apatia. Nero, quindi. Nero con venature blu e una grossa pennellata di marrone al centro. Una pennellata importante, robusta, morbida, cicciona. Un pizzico di rosso, appena accennato, quasi impercettibile, ma fondamentale perché serve a dare luce. Senza quella punta di rosso, questo articolo non esisterebbe.

Un sanatorio della Conca d’Oro, tanti personaggi diversi per idee politiche, religiose, per modi di fare e di intendere la vita, ma tutti malati di tisi.

Protagonista indiscussa del romanzo: la morte.

Le premesse sono quelle che sono, ce ne rendiamo conto, né ci sentiamo di dire che la cupezza del romanzo è bilanciata da un linguaggio allegro, irriverente, sarcastico. No, sarebbe stridente. Un libro nero, dalla copertina alle parole.

Ma torniamo un attimo alla dedica: a chi lo sa. A chi sa cosa? Cos’è l’amicizia, il dolore, la malattia, l’amore, la morte?
I personaggi di questo romanzo sanno perfettamente cos’è la morte. Ma non come, bene, o male lo sappiamo tutti noi: un’entità lontana, spaventosa, che teniamo nascosta in un angolo del nostro cervello, che cerchiamo di tirare fuori il meno possibile, di cui ci ricordiamo quando camminiamo su una strettoia a picco sul mare o quando attraversiamo la strada con il semaforo rosso. Giustamente. D’altronde, non potremmo vivere con l’ombra della morte. Non sarebbe vita: sarebbe morte.

Niente di tutto questo, in “Diceria dell’untore”. La morte è un sentimento ormai metabolizzato, accettato, inevitabile nel senso letterale: che-non-si-può-evitare, semplicemente perché, per tutti i personaggi, sta arrivando. E allora, se è inevitabile a fisicamente, perché rifiutarla mentalmente? I due livelli devono andare di pari passo, altrimenti si rischia di andare fuori di testa. E quindi il cervello di tutti i personaggi, da buon primo motore –e forse anche primo mobile- l’ha semplicemente messa nel conto.
Come si mette nel conto il raffreddore in autunno, il traffico sul Raccordo, l’ora di ricerca per trovare parcheggio a Piazzale Aldo Moro alle dieci del mattino, quando si è in ritardo per un esame. Inevitabile.

Eppure, nonostante la morte domini questo romanzo, -o forse proprio per questo-, i personaggi continuano a vivere la propria vita cercando di darle un significato, di trovare la felicità nelle piccole cose: un bel panorama, una serata in terrazzo con gli amici, un bicchiere di vino rosso e una sigaretta, il fresco dell’estate, l’amore.

L’amore, cioè Marta. Marta, cioè un’ex ballerina sensuale, irriverente, affascinante, sognatrice, con la testa tra le nuvole e piena di storie da raccontare –non sempre reali, ma poco importa-, che fa innamorare il protagonista.

Non abbiamo parlato del protagonista, vero. Non ha un nome ma parla in prima persona. Il narratore corrisponde al protagonista, sicuramente. L’autore corrisponde al narratore? Forse. O, forse, c’è troppo della vita dell’autore in questo romanzo per inventare un altro protagonista. L’autore non ha voluto dare un nome al suo alter ego, non ce l’ha fatta. Ma questa è solo un’analisi molto personale, indubbiamente discutibile.

Quello che importa, è che Marta e il protagonista si innamorano. (Il pizzico di rosso? Forse, ma non solo). Una storia d’amore reale, dei sentimenti autentici, parole scambiate di nascosto, sguardi furtivi, baci appassionati, notti passate insieme. Ma l’ombra della malattia c’è sempre, non li abbandona neanche per un istante, neanche quando vanno a fare una passeggiata al porto e a mangiare un gelato, neanche quando fanno l’amore. La malattia, la morte, la tisi sono sempre lì a fargli compagnia, come a dirgli divertitevi finché potete, io vi aspetto al varco.

La morte: una delle parole chiave dell’opera. Il tema centrale. Ma di parole ce ne sono tante e sono costruite in maniera impeccabile. Bufalino, in questo romanzo, dimostra di essere un grandissimo architetto della parola: crea frasi complesse, pompose, barocche. Frasi che contengono parole ripetute in maniera compulsiva, quasi a tradire un’ossessione di un autore indubbiamente molto bravo a nascondersi, ma che ogni tanto ci tiene a fare capolino con il suo personalissimo “cantuccio”, ovvero lo stile, il linguaggio. Dieci righe per esprimere un concetto, per descrivere un’immagine, uno stato d’animo o un ricordo. L’autore parte da lontano, usa metafore, espedienti retorici, gonfia il testo fino all’inverosimile, crea una climax crescente che sembra protrarsi all’infinito, parole su parole, frasi su frasi, righe su righe, pagine su pagine e poi, quando decide che il suo palazzo di lettere è terminato, inizia a scemare, sgonfia il discorso, arriva al punto.

Eppure, “Diceria dell’untore” non risulta ridondante. O meglio, parliamo di un romanzo estremamente ridondante. Ma non in maniera fastidiosa, anzi.

Prendete un concetto, interiorizzatelo. Svisceratelo, analizzatelo in tutte le sue sfaccettature, quelle più evidenti e quelle più recondite. Considerate i rapporti che il suddetto concetto ha con la vostra vita, con i vostri affetti, magari con la vostra infanzia. E trasformatelo prima in immagine, poi in metafora, e solo alla fine in frase. Otterrete la vostra personalissima “Diceria dell’untore”. O quasi.

Il risultato? Un’opera intessuta di retorica, con un anacronismo talmente evidente da risultare intrigante. Parole che avrebbe usato un autore dell’Ottocento, forse anche del Settecento, ma non un autore della seconda metà del Novecento.

Non è un libro facile, “Diceria dell’untore”. A meno che non si voglia considerare unicamente la trama: gli untori, quelle figure emarginate dalla società, basta avere qualche nozione su Manzoni per capire di cosa stiamo parlando. Ma chi non vuole fermarsi alla trama e desidera invece riflettere sul vero contenuto dell’opera, ci metterà del tempo: perché l’autore si nasconde, non vuole che il lettore lo riconosca, e quindi parla di argomenti complessi celandosi dietro un linguaggio ancora più complesso. Punta sulla pigrizia del lettore che, alla decima riga, quando l’autore fatica a trovare il punto del suo discorso, è esausto e rinuncia all’impresa, mandandolo al diavolo e accusandolo di filosofeggiare, magari. Giustissimo. Ma, lettori, non fatevi trarre in inganno: l’autore sta giocando con voi, vi sta chiedendo di fare un piccolo sforzo, di andargli incontro, di smascherarlo. State al gioco, abbiate pazienza e andate avanti: ne vale la pena.

Soprattutto perché lo stile, le parole, rappresentano l’aspetto più bello di questo romanzo. Più bello dell’accettazione della morte, più bello della dolcezza dell’amore: la morbidezza della parola. Barocca come il Baldacchino di San Pietro del Bernini, veloce come un’automobile futurista, piena di subordinate, come un’orazione di Cicerone, con la differenza che la tesi che Bufalino vuole dimostrare si ferma un attimo prima che il lettore possa comprenderla completamente. Periodi talmente complicati che, a un certo punto, il lettore deve tornare indietro, scorrere con il dito a qualche riga più su, per evitare di perdersi. E qualche volta si perde, è inevitabile, fa sempre parte dello stesso gioco. Non si può vincere sempre.

Un esempio che ha meritato un’ orecchietta nel libro di chi sta scrivendo questo articolo. Una timidissima e piccolissima orecchietta, in primis perché il libro in questione le è stato prestato da una persona che se lo sapesse, se lo riprenderebbe. In secundis, perché i libri non vanno maltrattatati. Vanno amati –oppure odiati-, sfogliati, accarezzati, guardati, odorati –uno dei profumi più belli, quello dei libri-, ma mai maltrattati: altrimenti, poi, smettono di funzionare.
Ci è parso, comunque, che una pagina in particolare sintetizzasse tutto quello che si prova leggendo questo romanzo. Oltre al fatto che era troppo bella per rimanere anonima, andava onorata, doveva spiccare in qualche modo. Motivo per cui “Diceria dell’untore” verrà restituito al legittimo proprietario un po’ più vecchio, un po’ più vissuto e anche un po’ più amato. E la pagina 111 avrà la sua personalissima orecchietta.

Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di rivivermi. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso, e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa coi cadaveri amati. Le strategie per possederlo sono le solite, e le adopero tutt’e due. Dapprincipio mi visito da forestiero turista, con agio, sostando davanti a ogni cocciopesto, a ogni anticaglia regale; bracconiere di ricordi, non voglio spaventare la selvaggina. Poi metto da parte le lusinghe, lancio a ritrovo dentro me stesso occhi crudeli di Parto, lesti a cogliere e a fuggire. Dagli attimi che dissotterro non so cavare pensieri, io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spaventa o mi stanca. Ma bagliori, invece… bagliori di luce e ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibile, quassopra, dietro la fronte… Sento che a volte basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore… e forzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere…

 

 

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