Da un certo momento in avanti, non facilmente individuabile negli ultimi venti anni, la Street Art ha smesso di essere considerata vandalismo. Oggi appartiene infatti a quell’aria grigia in cui finiscono tutte le forme d’arte in grado di essere sovversive mantenendo un’estetica coinvolgente, nella terra di mezzo tra la condanna e l’apprezzamento.
Da un certo momento in avanti, la Street Art ha smesso di imbrattare e ha cominciato ad arredare, ha smesso di deturpare e ha cominciato a valorizzare. I muri di periferia, tele urbane destinate alla comunicazione dal basso e mezzo di riappropriazione spaziale, sono diventati anche luoghi concessi dall’alto, a chi, artista ancora fuori dai canoni, può essere in grado di far rivivere e rifunzionalizzare le brutture e gli attriti dello spazio cittadino.
L’ingresso della Street Art in questa dimensione e il progressivo riconoscimento della sua ragion d’essere da parte del grande pubblico e delle istituzioni, che hanno imparato a sfruttarne le potenzialità, provoca periodicamente un dibattito sulla sua collocazione. Non è solo a livello ideologico ma anche a livello spaziale. È infatti solo apparentemente scontato pensare che la Street Art oggi possa continuare ad appartenere solo alla strada. La progressiva rimozione dello stigma ha fatto sì che cominciasse ad essere attratta e potenzialmente inglobata all’interno delle istituzioni artistiche e museali canoniche.
Il caso Borondo
Nelle ultime settimane si torna a parlare del problema di accettare placidamente che l’arte possa rimanere al di fuori dai musei, sia da un punto di vista strettamente fisico che a livello concettuale. Questo in relazione a un episodio che ha coinvolto Gonzalo Borondo, street artist profondamente ‘ambientale’ che crea la propria arte a partire dal contesto in cui essa prende vita. Costruisce quindi l’esperienza dello spettatore principalmente in rapporto alla dimensione spaziale dell’opera.
Già da questa brevissima descrizione si capisce, dunque, come la decisione arbitraria e non autorizzata di esporre un suo murale al Teatro Colosseo di Torino, in occasione della mostra Street Art in Blu 3, sia stata da lui mal tollerata. Percependo la questione come un tradimento della natura stessa della sua produzione artistica, ha deciso di cancellare l’opera, ricoprendola con spray bianco.
Più che una difesa di quella precisa opera, il nostro gesto è stata una presa di posizione contro la pratica di “strappare” le opere dai muri ed esporle. […] È una moda molto pericolosa, perché questi lavori nascono da un dialogo diretto con la superficie e con il contesto. Portandole via da quel contesto spariscono come opere. Non sono fatte in studio, in un monologo con me stesso: sono il risultato di un dialogo con una parete, un museo, un cortile, un cimitero, un mercato.
Borondo, fin dal principio della sua carriera, nelle occasioni in cui ha scelto di esporre le proprie opere in mostre, lo ha fatto sempre rigorosamente non a pagamento. Diventa quindi chiaro perché la rimozione di una sua creazione dal luogo di nascita, per esporla in un altrove a cui si accede tramite biglietto – senza il suo consenso per giunta – sia stata una scelta eticamente opinabile, come lui stesso ha fatto notare.
I precedenti
Già nel 2014, in realtà, qualcosa di molto simile a Borondo era accaduto anche allo street artist Blu, il quale aveva scelto di rimuovere da Bologna, imbiancandole, tutte le proprie opere, per ribellarsi alla decisione non consensuale di staccarne ed esporne alcune alla mostra Street Art – Banksy & co. Questo episodio aveva messo in luce già allora la vertigine costante che nasce dall’incontro tra il mondo potenzialmente prepotente delle istituzioni e quello della strada.
Esempio interessante di questa stessa forma di esercizio dell’autorità è proprio la pratica ormai comune di organizzare mostre a pagamento non autorizzate per l’esposizione di opere di street artists, come Banksy. Si pensi ad esempio alla Banksy. Building castles in the sky a Parma, capitale della cultura 2020-2021, che raccoglie un campione importante della produzione dell’artista di Bristol. La mostra incornicia le opere, non solo materialmente, sulle pareti, ma anche concettualmente, raccontandole e contestualizzandole didascalicamente.
Queste mostre e chi le organizza portano avanti quindi una sorta di monologo, rivolto a un pubblico attirato dalla novità dell’estetica e del messaggio, e non concordato con l’artista, che finisce per ascoltare una narrazione di sé stesso spesso non condivisa o eticamente rifiutata. Il dialogo con le più volte citate istituzioni sembra infatti essere davvero efficace solo nei frangenti in cui il punto di incontro con la Street Art non sta all’interno dei confini spaziali di un museo, ma in quelli porosi e sempre rinegoziabili della strada.
La street art oggi
Oggi, infatti, la Street Art non esiste più solo nell’appropriazione artistica illegale di spazi pubblici in cui affonda le proprie radici. La scelta di valorizzare lo spazio urbano tramite l’arte sta diventando sempre più frequentemente il metodo prediletto dalle amministrazioni pubbliche per riqualificare, e spesso anche gentrificare, quartieri cittadini socialmente ed economicamente liminali. Un metodo che vede coesistere la legittimazione definitiva di questa forma d’arte con una sua forma di “asservimento”, dal momento che questa stimolante collaborazione ridimensiona notevolmente la nota paradigmatica dell’esercizio del dissenso.
La concessione di uno spazio legittimato con finalità socialmente e culturalmente nobili è senza dubbio una grande conquista, esempio dell’ormai definitivo abbattimento delle barriere di pregiudizio nei confronti della Street Art, il cui valore artistico è ormai universalmente riconosciuto. Ma il rapporto con le forme catalizzatrici delle istituzioni si muove lungo il filo del rasoio, soprattutto se queste istituzioni, come già suggerito, sono quelle museali.
Come dimostrano i casi Borondo e Blu, l’azione del “musealizzare” corre sempre inevitabilmente il rischio dell’arbitrarietà, dell’imposizione di un significato e della manipolazione del significante, ancora di più quando non esiste il dialogo con l’artista. Una considerazione non banale, nonostante il contesto iperconsapevole in cui siamo oggi immersi. Forse, però, questo non è altro che il gioco delle parti, un duello, antico come il mondo, in cui l’auctoritas lotta per rimanere tale e tutto ciò che auctoritas-non-è lotta per guadagnarsi lo spazio in cui sopravvivere.
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