L’insensatezza di un nuovo PCI

È rinato a Bologna il Partito Comunista Italiano e non si può che valutare come improvvida questa antica genesi.

Come la storia ci insegna, il vero grande PCI morì ventisei anni fa, quando il segretario Occhetto impresse alla macchina del partito la celeberrima svolta suggerita dal corso degli eventi e resa inevitabile dal contesto socio-culturale del tempo.

I comunisti (o presunti tali) si spostarono su posizioni più democratiche: taluni convergendo verso il padule del Centro, talaltri verso esperimenti fragili di socialdemocrazia.

Appare lapalissiano oggi come la calamita della politica sia posta più che mai in un punto centrale, ove tutte le grandi fazioni convergono, esaurendo l’originalità di una propria proposta politica e costruendo la loro fiducia elettorale intorno a temi volatili, discorsi di pancia e figure più folcloristiche che carismatiche.

Che se ne dica e ne dicano, colgo con ribrezzo come la distanza tra il centro-destra ed il centro-sinistra italiano di oggi sia nulla, solo di nome e di facciata, tanto che in un mio privato delirio di teoria politologica ho ipotizzato un nuovo bipolarismo italiano: centro-destra e centro-sinistra uniti da una parte, Movimento Cinque Stelle dall’altro, vero unico oppositore (almeno nelle intenzioni) presente sulla piazza. Vedremo ora a seguito della vittoria nei grandi comuni la loro effettiva differenza tra idea ed azione.

Malgrado questo, si può giudicare come mossa più che anacronistica la rinascita del Partito Comunista, impossibile alternativa alla situazione che sta delineandosi. Altra dovrà essere l’alternativa, sempre che questa società odierna effettivamente ne necessiti.

Il Partito Comunista rappresentò nell’Italia repubblicana l’unica grande famiglia politica fondata su una ideologia e, ahiloro, ideologia e comunismo non possono essere scisse. Sarebbe come parlare di pastore senza gregge o pilota senza auto da corsa.

Le parole pesano, i nomi e le sigle ancora di più. Chiamando un partito “comunista”, al comunismo bisogna rifarsi, senza mezzi termini e tralasciando i timidi accenni; altrimenti si ricadrebbe negli ennesimi esperimenti politici di sinistra miseramente falliti.

L’essenza comunista del primo PCI svanì già nel 1945 quando, conclusa la guerra partigiana di liberazione, i comunisti scelsero di deporre le baionette e sedersi al tavolo del compromesso politico.

Questo gesto va benedetto ma non si può negare che vada contro l’essenza della dottrina marxista, avendo bloccato sul nascere il percorso di instaurazione della dittature del proletariato.

Disse Mao come la Rivoluzione sia un atto di violenza e, in Italia, interrompendola (e per fortuna!) il primo comunismo ha rinunciato sul nascere alla parte essenziale di sè.

Ho sempre apprezzato la figura di Berlinguer ma non ho mai sofferto la sua ostinazione nel definirsi comunista quando, nelle sue pratiche politiche, si esprimeva chiaramente in termini socialdemocratici se non socialisti. Covo segretamente l’idea che, se il suo PCI non si fosse chiamato PCI, Enrico avrebbe realmente governato, onestamente e lucidamente come certo sapeva.

Se dunque già dell’epoca di Togliatti il PCI ha rinunciato ad ampia parte della sua matrice comunista, che senso ha oggi, in un contesto sociale che nulla ha a che vedere con quello del 1848, una nuova proposta comunista?

Nessuna. Assolutamente nessuna. Mancano le basi sociali di fondo a cui rivolgersi.

Certo, si diranno gli operai; certo, i lavoratori disoccupati; o ancora i giovani, gli stagisti, le giovani madri, i pensionati. Ma un fatto di fondo si sottovaluta e proprio intorno a questo il castello crollerà.

Oggi, che si sia manager o spazzini, che si giri in Ferrari o su una Panda, tutti abbiamo in tasca il nostro bello smartphone, tutti ci rivolgiamo a Facebook, tutti aneliamo alla scarpe all’ultima moda o alle nuove cuffie per l’iPod.

Manca oggi la coscienza di classe e, mi spiace per i rifondatori, senza quella non si andrà lontano.

Se un tempo il democristiano andava all’oratorio ed il comunista alla Casa del Popolo, l’uno leggeva Il Popolo e l’altro L’Unità, il primo tifava Bartali ed il secondo Coppi, oggi la commistione è assoluta, manca la differenziazione tra quello che un tempo era il borghese e quello che era il proletario.

Potrebbe mancare forse nei mezzi ma nella instaurazione di un potere ciò che conta è l’idea, il senso di appartenenza che, oggi, non c’è.

Lo diceva Pasolini nella sua idea di “grande omologazione“. La DC ha attuato un colpo di stato più vile di quello fascista, omologandoci e rendendoci tutti privi di una coscienza di classe, imbambolati davanti alle vetrine ed alla Tv.

Al giorno d’oggi questa standardizzazione è massima, l’amor proprio è minimo e la coscienza è nulla. Terreno arido per un partito che su questi temi dovrebbe fondarsi.

Appena rinato già è morto: gli sia lieve la terra.

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