Il campo di pomodori -Parte IV

 

di Andrea Piazza

Non sono propriamente fuggito da casa…non mi era mai passato per la testa fino al giorno in cui sono partito”

“Capisco…anzi, sinceramente, no. Se non voleva andarsene, perché l’ha fatto?”

Il pullman prese una curva a destra con eccessiva veemenza e tutti i passeggeri furono spinti nella direzione opposta.

“Oh, mi scusi!” disse lei mentre cercava di recuperare l’equilibrio dopo essere caduta dalla sua parte, appoggiandosi alle sue spalle per sostenersi.

“Niente, si figuri..” rispose lui mentre, con un gesto goffo, cercava di raccogliere le monete che gli erano cadute per terra dalla tasca.

Si ricompose e le sorrise.

“Mi stava dicendo della sua famiglia” – riprese lei cercando di sviare rapidamente la sua attenzione da quel momento di imbarazzo reciproco.

“Sì…si” – iniziò lui, per poi fermarsi di colpo.

Qualcosa si contrasse nel viso di lei. “Non è obbligato a parlarmene, se non vuole, parliamo d’altro. Ora sono io ad essere un po’ fastidiosa, ma ero solamente curiosa” – cercò di distendere il viso e sorridergli, ma le riuscì solo una via di mezzo.

“Non mi dà fastidio. Anche io sono curioso. È solo che non è semplice, non è così semplice”

Fece una piccola pausa. Prese di nuovo il pacchetto dalla tasca e velocemente butto giù una piccola caramella bianca.

“Abitavamo in una piccola casa in campagna – io mia madre mio padre e mio fratello maggiore. Si parla di…beh, più di 35 anni fa ormai”

“L’avrei detta un po’ più giovane”

“Davvero? Non è così. Anzi nelle ultime settimane mi sembra di essere invecchiato più che in tutta la mia vita”

“Ho detto un po‘ più giovane. Solo un po’”

Lui sorrise.

“Comunque, eravamo noi quattro. Nell’ultimo anno erano cominciati i bombardamenti degli Alleati, sempre più massicci. Noi eravamo risparmiati, abitando fuori città, ma dovevamo essere autosufficienti coi prodotti che coltivavamo – granturco, grano, pomodori, queste cose insomma. In qualche modo sopravvivevamo, come tutti a quel tempo.

Fu verso la fine del ’44 che iniziarono i problemi seri. C’erano molti movimenti in tutta la campagna. Si rincorrevano voci diverse, tutti erano all’erta. Poi…” – si fermò per scegliere le parole.

“Poi ci fu quel giorno. Non ricordo la data precisa. Fino a quel momento avevamo sentito i bombardamenti in lontananza, come se fossero offuscati dalla nebbia…ci mettevano paura, ma eravamo al sicuro. Fino a quel giorno almeno”

“Colpirono la vostra casa?”

“Non ne sono sicuro. Non ricordo nulla di quel giorno, neppure il più piccolo particolare. So solo che non mi trovavo a casa al momento del bombardamento, per qualche motivo che non saprò mai. Mi ritrovarono in un campo poco lontano da casa mia. Tutto era stato raso al suolo, ogni casa, cortile, stalla, ogni campo coltivato era distrutto, pieno di fossi, le piante bruciate…”

Si fermò di nuovo. Non riusciva a proseguire. Aveva un nodo in gola che gli impediva di parlare.

“La…la sua famiglia…”

“Nessuno è sopravvissuto. O almeno, così mi hanno detto. Io non ricordo nulla. Di quel giorno, e dei giorni che sono seguiti – pare che io sia rimasto per quasi due giorni in quel campo, prima che mi ritrovassero – non ricordo nulla. Nulla. Mi raccontarono dopo quello che era successo. Ero come sotto shock, come se mi avessero fatto un buco nel cervello per strappare i ricordi. L’unica cosa che non ho dimenticato è quel campo: un campo di pomodori, in cui ero disteso, con il viso nella terra fresca…quando due soldati mi portarono fuori, a braccia, vidi che tutto attorno non era rimasto nulla – tranne quello, tranne quel campo, che era perfettamente intatto! Come se le bombe non fossero state che un soffio di vento tra le fronde degli alberi…”

“Sembra un miracolo, quasi…”

“Può darsi. In qualche modo sono riuscito ad andare avanti. E’ l’unico ricordo che ho, e cerco di non dimenticarmene. Ma non ne parlo mai. Solo dopo mi dissero che i tedeschi avevano radunato armi e munizioni in alcuni edifici lì vicino, di fianco al fiume. Per quello gli aerei avevano sganciato le bombe su di noi”

Lei lo fissò per un istante, forse riflettendo tra sé e sé.

“Spero di non essere stata invadente. Non so cosa dire, sulla sua famiglia, su di lei…”

“Invadente? È l’unica persona con cui sia riuscito a parlarne” – disse lui, alzando involontariamente la voce. Le sue parole sembrarono risuonare per un momento nell’aria.

Subito si ricompose, estrasse il pacchetto dalla tasca e prese due Citelli.

Per un po’ non parlarono più. Erano stati colti dall’imbarazzo come due adolescenti – o forse proprio come due persone adulte ormai disavvezze ai nuovi incontri. Nella mente di lei presero forma molte domande, sul suo passato, sul suo presente. Non seppe però decidersi a formularle ad alta voce, forse per paura di spingersi troppo in là, o forse per timore di rompere qualcosa che sembrava essersi creato tra loro due – due persone così diverse, due mondi così lontani…

Lui, d’altra parte, provava un’incredibile confusione di sensazioni. Si sentiva in imbarazzo per quanto aveva detto o rivelato; sentiva il peso della sua storia, piena di buchi, proprio come i campi dopo il bombardamento di quella notte, quella notte di cui ricordava così poco e di cui avrebbe voluto sapere così tanto; ma più di ogni altra cosa, si sentiva in colpa verso di lei – lei che lo aveva lasciato un mese prima, lei che lo aveva spinto a fare quel viaggio, lei che se n’era andata per sempre e non sarebbe mai più tornata (lei che non concepiva il significato delle parole “sempre” e “mai”, lei che non sapeva pensare qualcosa di così disumano racchiuso in così poche sillabe, parole che ripeteva ancora e ancora cercando di farle sue senza successo…).

Quel senso di colpa non lo abbandonava. Ma non voleva parlarne – no, di questo no. E tuttavia quel suo viaggio, pur privo di una logica, stava forse assumendo quei contorni che lui, dentro di sé, si era aspettato. Un nuovo inizio, in qualche modo, la ricerca disperata di un senso fra gli infiniti possibili. Di tutte le immagini e i ricordi della sua vita, voleva salvare solo quello; quel campo di pomodori all’alba, un’isola nel deserto.

E ora che lei non c’era più, lui si sentiva qualcosa di molto simile.

Si voltò verso la ragazza, che guardava ora fuori dal finestrino. Sentiva di doverle rivolgere quella domanda ma non sapeva come esordire.

Alla fine radunò tutte le sue forze, inspirando senza far rumore.

“Vuole venire con me?”

Lei si girò, dopo un attimo di esitazione, per fissarlo negli occhi. Sbatté le palpebre un paio di volte più del normale.

“Venire con lei?”

“Sì, sto tornando proprio in quel posto. Scendo alla prossima fermata, se non ho sbagliato i conti”

“Non c’è bisogno che la segua; anche io scendo alla prossima”

Gli sorrise. Il suo viso si distese, finalmente libero da preoccupazioni.

Dopo qualche minuto, frenando brutalmente, il pullman si fermò in un piccolo slargo della strada, nel mezzo del nulla. La campagna si stendeva in ogni direzione. Solo qualche casa, a qualche centinaio di metri di distanza, testimoniava la presenza di altre persone.

Appena scesi dall’autobus, lui si girò verso la ragazza di scatto.

“A proposito” – disse – “Ancora non ci siamo presentati. Mi chiamo Carlo, Charlie se preferisce”

Gli strinse la mano. La mano di Charlie era grande, con dita lunghe e sottili, e la sua stretta forte e sicura.

“Io sono Marta. Andiamo, lì c’è il paesino in cui abito”

Iniziarono a camminare fianco a fianco.

credits

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