Tra i volti del giornalismo quello di Giancarlo Siani quasi non esiste: è morto troppo presto e troppo giovane. Il suo volto, a parte qualche fotografia, lo ricordiamo in un film dal titolo indimenticabile, Fortapàsc, attraverso la faccia del bravo Libero De Rienzo. Per il resto, quasi niente. Perché quando la camorra ha deciso che Giancarlo Siani doveva morire lui aveva appena 26 anni, girava con una Citroen Mehari, una di quelle macchine scoperte che adesso non si vedono più, amava una bella ragazza napoletana (questo ci racconta il film) e aveva la “passionaccia”, quella che -dicono- a volte prenda: la passione per il giornalismo, per la scrittura, per i fatti da raccontare. E siccome a Napoli c’era (e c’è) da raccontare il caffè, la pizza, il sole, il mare, il mandolino, ma anche la camorra e una città violentata e devastata lui, Giancarlo, aveva scelto di raccontare più questo che quello: più Scampia che pizza margherita.
Era una sera calda di settembre, il 23 del 1985 quando Giancarlo fu ucciso con parecchi colpi di pistola (ne sarebbe bastato uno, ma gliene spararono tanti) mentre parcheggiava la sua auto. Dieci colpi. Via Vincenzo Romaniello, nel quartiere napoletano dell’Arenella, a pochi passi dalla sua abitazione. Stava tornando a casa. O forse stava andando dalla sua ragazza. Veniva dalla redazione de Il Mattino dove aveva appena terminato di lavorare al suo ultimo articolo: ”Nonna manda il nipote a vendere l’eroina”. Scriveva così: “mini corriere della droga per conto della nonna. A dodici anni già coinvolto nel giro dell’eroina”.
Aveva fatto il liceo, Giancarlo. Il liceo classico; diplomato con il massimo dei voti. Poi l’università e contemporaneamente le prime collaborazioni con Il Mattino. Voleva fare il giornalista – era curioso: come ogni buon giornalista. Era spavaldo: come ogni ragazzo di 26 anni. Era appassionato: come ogni persona che scopre un interesse alto e forte. Sembra che la camorra abbia deciso di ucciderlo proprio dopo aver letto un suo articolo su un boss finito in galera. L’articolo cominciava così: “potrebbe cambiare la geografia della camorra l’arresto del superlatitante Valentino Gionta…” ecco: quella manciata di parole decretò la sua morte.
Sono passati trentatré anni da quella vicenda. C’è un bel film a ricordarcela, forse qualche libro, tanti articoli. Poi ci siamo noi che proviamo a riannodare quel filo di memoria che, in qualche modo, ci lega a quel ragazzo di un’altra generazione, ancora senza telefonino e senza internet, giornalista “abusivo”, senza contratto e con poche certezze ma tanta passione. Ed è questo che, forse, ci rimane. Più della sua storia, più della sua morte. Più ancora dei suoi articoli. Ci rimane quel senso di passione che è nostro come i nostri vent’anni: forse il modo migliore per provare a ricordare la storia di quel ragazzo di Napoli.