In difesa del diritto di leggere qualsiasi cosa. Pennac, Roth e la morte della Letteratura.

Era il 2010 e Ted Genoways, autore pluripremiato e giornalista, concludeva così un articolo in cui si interrogava se la letteratura (fiction, nel testo originale) fosse morta:

«i giovani scrittori devono spostare lo sguardo verso l’esterno, su un mondo naufragato e bello, degno e bisognoso dell’attenzione di scrittori intelligenti e sensibili. Non sto chiedendo altri esperti – Dio sa che ne abbiamo fin troppi. Sto dicendo che gli scrittori devono […] mettere in gioco se stessi e il loro lavoro. Smettetela di essere così dannatamente delicati e educati. Trattate la scrittura come la vostra linfa vitale invece che il vostro sostentamento. E per l’amor di Dio, scrivete qualcosa che potremmo voler leggere».

L’anno prima il suo collega Philip Roth – uno dei più noti e premiati autori statunitensi – in un’intervista dichiara che di lì a 25 anni, a essere ottimisti, quasi nessuno avrebbe più letto romanzi.

Nel 2003, andando sempre più a ritroso, David Foster Wallace distingue due tipi di letteratura: quella commerciale, che annovera autori come Stephen King, John Grisham e Tom Clancy e quella più “seria”, letta sempre da meno persone perché richiede una maggiore concentrazione e più tempo:

«ogni anno la cultura diventa sempre più ostile… diventa sempre più difficile chiedere alle persone di leggere […] oggi con i Computer e Internet tutto è così veloce».

Il problema di vivere in una cultura dominata dalla velocità, da contenuti che sono fatti per essere consumati nel giro di poche ore viene sottolineato anche da David Ulin, critico letterario e scrittore, in un articolo uscito lo scorso agosto per il The Paris Review dal titolo Is literature dead?. Sulla falsariga di Wallace, Ulin si interroga sul destino della letteratura, confrontandosi con il figlio adolescente Noah:

«Come funzionano le cose per noi in una cultura in cui l’informazione e le idee sono diffuse e consumate così rapidamente che non abbiamo il tempo di valutarle prima che altre prendano il loro posto? Come fa la lettura a mantenere la sua presa sulla nostra immaginazione […]? Noah può anche non essere un lettore, ma non è immune dal fascino di una bella frase; poche settimane dopo la nostra conversazione a tavola, mi ha detto di aver finito The Great Gatsby e che quella degli ultimi capitoli era stata la scrittura più bella che avesse mai letto. “Sì, certo”, gli dissi, soddisfatto dell’osservazione, ma non potevo fare a meno di ripensare al nostro precedente discorso sul romanzo, che si era concluso con Noah che si alzava in piedi e diceva, in un tono schietto come una spinta di lancia: “Ecco perché nessuno legge più. […] Ecco perché la lettura è finita. A nessuno dei miei amici piace. Nessuno vuole più leggere”».

Ogni anno – e il 2018 come si è visto non fa eccezione – giornalisti, autori e critici dichiarano che la letteratura è morta, che nessuno scrive più nulla che valga la pena di essere letto e che nessuno legge più libri di qualità.

Già nel 1965, Frank Kermode – professore di Letteratura Inglese a Londra, Cambridge, Oxford, Harvard e alla Columbia University – pubblicò Life and Death of the Novel, in cui sosteneva che

«il destino speciale del romanzo, considerato come genere, è quello di morire sempre; e la ragione principale è che gli autori e i lettori più intelligenti sono sempre consapevoli del divario, fatto di assurdità, che cresce tra il mondo così come sembra essere e il mondo proposto nei romanzi. Certo, solo i romanzieri e i loro lettori più intelligenti dicono sempre che il romanzo sta morendo; il pubblico dei romanzi popolari è abbastanza contento dei luoghi e dei punti di riferimento familiari di quello che Scott, guardando il romanzo inglese di fine Settecento, chiamava “la terra della finzione”».

Ma questo allarmismo, che fonda le sue radici così indietro nel tempo, ha davvero motivo di esistere? Negli anni ’60, nei primi anni del 2000 e ancora oggi si dice che la letteratura è finita, morta, senza speranza di rinsavire; a una crescita generale del mercato del libro in Italia (+ 4,5% rispetto agli anni precedenti) e a una sostanziale stabilità della lettura (sebbene il numero di lettori rimanga più basso rispetto ad altri paesi europei) si contrappone la preoccupazione che la qualità delle letture sia inferiore rispetto al passato, poiché «questo è un tempo in cui si elogiano romanzi senza stile e senza trama, scrittori senza voce che però parlano molto».

Prima di disperarsi per il declino della letteratura e della cultura però, sarebbe opportuno farsi un esame di coscienza e chiedersi se, davvero, le generazioni precedenti leggessero di più e meglio e se gli autori del passato fossero più validi e di talento di quelli attuali.

D’altro canto è noto che uno dei generi più popolari negli anni Venti negli Stati Uniti fosse il pulp, non certo i poemi di Tennyson; questo tuttavia non ha impedito che nel corso del Novecento venissero composte le grandi opere della letteratura contemporanea. Quindi forse, per una volta, lasciamoci trasportare dal piacere che proviamo leggendo, leggiamo per il piacere di scoprire mondi diversi, di vivere vite che non sono le nostre, di fare esperienze altrimenti impossibili, fidiamoci del nostro giudizio – checché ne dicano i critici. Un romanzo è un buon romanzo se ci fa provare delle emozioni, spesso al di là del suo valore letterario; Gilbert Sigaux, studioso e storico di Simenon, ci ricorda che

«se comunica con i lettori di ogni livello, se tocca l’uomo qualunque e Gide, o Henry Miller, o Jung, è perché sa suscitare in ciascuno una stessa paura, un identico stupore di fronte alla vita, un medesimo terrore e un’eguale pietà. Non c’è posto per nessuna convenzione morale in questa ricerca e in questo lento cammino. Il romanziere  si mette all’interno dell’uomo e ci fa sentire il rumore della sua vita, ci fa seguire il suo destino».

Daniel Pennac a sua volta, in Come un Romanzo elencando i diritti del lettore ricorda al punto 5 il diritto di leggere qualunque cosa; leggere deve essere un momento intimo, emozionante. E non importa se a farci piangere, ridere e arrabbiare è un romanzo di Tolstoj, di una delle sorelle Brontë, di Sophia Kinsella o John Grisham; chiunque ha il diritto di leggere, non leggere, leggere solo romanzi rosa, grandi classici della letteratura o l’ultimo libro di ricette dello Chef del momento.

Non importa cosa leggete, purché vi appassioni. E allora leggete, leggete ed emozionatevi.



 

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