Non seguirmi, cercati. Queste le ultime parole della presentazione dello spettacolo. Questo l’insegnamento lasciato da Pina Bausch a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Questa la lezione dopo anni di ricerca e avvicinamento ai capolavori della regina del Tanztheater. Perché, in effetti, accostarsi a un classico, qualunque esso sia, non significa riprodurre o imitare, bensì cercare e ritrovare sé stessi attraverso esso. E se questo vale per un romanzo, una scultura, un quadro, come può non riguardare Café Muller, la pièce simbolo che nel 1978 ha trasformato, per sempre, il mondo della danza o, per meglio dire, la spettacolarità del corpo in scena? L’apertura di stagione della Triennale è affidata a un ritratto d’artista: un ciclo di tre spettacoli a cura di Deflorian e Tagliarini, autori, registi e performer. Il primo spettacolo, Rewind – Omaggio a Café Muller, è dedicato alla pièce omonima di Pina Bausch.
Deflorian e Tagliarini si sono approcciati al capolavoro di Pina Bausch in punta di piedi, col fare simile di chi si avvicina a qualcosa di fragile e prezioso. Perché Café Muller, in effetti, è uno spettacolo che non ha precedenti, un’opera d’arte da conservare e approfondire. La performance simbolo del Tanztheater si sviluppa in uno spazio vuoto, pieno di sedie. Uno spazio che racchiude l’intera esistenza, uno spazio, secondo alcuni, autobiografico. Pina Bausch avrebbe infatti evocato un Café concreto, ricordo della propria infanzia. Il locale è riempito da personaggi, corpi che si muovono alla ricerca di una soddisfazione esistenziale. Così vediamo un uomo vestito in nero, una donna che sembra cieca, una ballerina dai capelli rossi. Ciascuno si muove nello spazio con piena consapevolezza di sé stesso, ma estremo bisogno dell’aiuto dell’altro.
Parlare di Café Muller è complicato; è uno spettacolo di emozioni e sensazioni, che non lascia spazio alle parole. Tutti ricordano la famosa scena dell’abbraccio. Due corpi che si stringono, un uomo vestito in nero che pone il corpo della donna nelle braccia del secondo uomo. Lei scivola per terra, rifiutando quella presa. Ricomincia l’abbraccio. E così la scena si ripete, più e più volte. Quell’abbraccio, simbolo di una volontà suprema, è memoriale al punto da renderlo indelebile. Chi vede Café Muller non può dimenticarsi della violenza e del ritmo concitato con cui i corpi dialogano in un continuo rapporto di attrazione – repulsione.
Deflorian e Tagliarini realizzano un vero e proprio rewind. A distanza di uno spazio e tempo indefinito, riflettono su uno spettacolo che non hanno mai visto. Riavvolgono il nastro verso un tempo che ha lasciato solo “macerie”. Dicono infatti:
Il tempo trasforma, cancella, confonde e l’idolo, intoccabile e mitizzato si frantuma, rimangono le sacre macerie. Finalmente le macerie. E allora è possibile camminare tra queste macerie, prenderne in mano una, guardarla da vicino e frantumarla ulteriormente.
A distanza di tempo l’oggetto può essere dunque analizzato nel dettaglio, approfondito al punto da indagarlo e trasformarlo. Le “macerie” di Café Muller hanno prodotto ricordi e il tempo dà alla memoria la libertà di far fluire quei ricordi. Così immagini provenienti dallo spettacolo si mescolano ad aneddoti della vita quotidiana. I discorsi si susseguono attraverso associazioni di idee. Café Muller, mai mostrato agli spettatori, sembra aprire un contenitore di emozioni e ricordi e Deflorian e Tagliarini si mostrano disponibili ad accogliere le più svariate suggestioni. Loro stessi affermano:
Ci siamo impegnati a raccontare questo miracolo artistico senza mai farlo vedere al pubblico e, nel raccontarne la indicibile magia, ci siamo ritrovati a parlare di noi, delle nostre famiglie, dei nostri amori e degli inizi e delle fini, di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick e di Mastroianni, di Madonna, dell’11 settembre e di Kennedy. Non per divagare, ma per verbalizzare la nostra esperienza come spettatori di fronte ai suoi lavori e la nostra nostalgia per qualcosa che non può tornare.
Delorian e Tagliarini sono, per prima cosa, spettatori. Sul palco, vuoto, un computer, di spalle al pubblico, attraverso il quale viene trasmetto Café Muller. I due, in una scena quasi familiare, guardano il capolavoro e commentano. Nonostante evochino uno spazio e tempo irraggiungibili, onirici quasi, le loro riflessioni sono concrete e presenti. Alcuni elementi prendono forma fisica, ma trasformati o decontestualizzati. Le sedie per esempio, sono chiari rimandi alla scenografia di Café Muller. Danzano nello spazio trasportati dai performer, quasi evocassero i danzatori di Pina Bausch. E la ballerina, che entra in scena quasi fosse la materializzazione di un ricordo, si muove nello spazio in una danza, per poi dissolversi.
Con ironia e saggezza, leggerezza e profondità, Deflorian e Tagliarini esplorano e rendono viva l’opera d’arte, quell’entità che comunica attraverso il tempo. La interpretano alla luce della quotidianità e di un’esperienza individuale, esperienza che non può che essere definita “umana”.
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