La violenza razziale in America si riformula in un nuovo, triste, episodio. Questa volta siamo a Minneapolis, Minnesota, il 25 maggio 2020. In America Centro-Settentrionale si consuma un caso di violenza contro un civile da parte della polizia. La vittima è un uomo afroamericano, e non è la prima volta. Si chiama George Floyd, ha quarantasei anni ed è un padre di famiglia. È un uomo, come tanti altri, ma con il triplo delle possibilità in America di essere aggredito dalle forze dell’ordine. Questo solo per il colore della sua pelle.
Accade che viene fermato in macchina dai poliziotti per una segnalazione di guida in stato alterato. Il resto della storia ribolle in questi giorni tra le pagine di cronaca, lungo i commenti indignati sulle pagine social e l’attiva protesta di chi non vuole dimenticare quel gesto. Un’imposizione violenta del poliziotto Derek Chauvin, già coinvolto in forme di abuso di potere.
Basta una combinazione di due elementi. Da un lato, il suo ginocchio premuto sulla gola di Floyd, dall’altro l’urlo soffocato I can’t breathe. Pochi minuti, 8 e 46 secondi per l’esattezza, e l’uomo muore. In America la chiamano police brutality, per sottolineare meglio la natura barbara e brutale del comportamento. Tale espressione accompagna i quattro agenti coinvolti nell’aggressione, licenziati, ma con ancora addosso l’odore di una giustizia mancata.
È quel senso di giustizia e di rispetto per qualunque persona ed etnia che spinge migliaia di americani a protestare. Violenza contro violenza, perché non sempre il potere offre correttezza, anzi. E nella quotidianità che impone la propria voce, l’arte non può non dare il suo punto di vista. In quanto osservatrice degli eventi storici nel loro evolversi, offre una propria narrazione estetica.
Racconta un passato che purtroppo si ripresenta in un presente che non è in grado di imparare dai propri errori, verso un futuro che non può dimenticare. Per questo i suoi riferimenti hanno origine nella schiavitù, lungo le lotte per i diritti civili contro la segregazione razziale, fino alla fondazione del movimento sociale Black Lives Matter, nel 2013. L’obiettivo è quello di combattere il pregiudizio, l’odio, la violenza ingiustificata, verso una migliore comprensione dell’altro.
Si tende a generalizzare, individuando nella violenza razziale un fatto politico e sociale, senza valutare il valore emotivo e personale delle vittime che, per il colore della loro pelle, si trascinano sulle spalle un carico di violenza, dolore, vergogna e abbandono. Per questo l’arte cerca di indagarne diverse sfaccettature, plasmandosi su più forme rappresentative, dalla pittura, alla fotografia, fino all’architettura.
Il riferimento architettonico più recente è l’inaugurazione, nel 2018, del Legacy Museum e del National Memorial for Peace and Justice, in Alabama. Quest’ultimo, progettato con il MASS Design Group di Boston, si compone di ottocento colonne d’acciaio. Pendono dal soffitto, sospese, a rappresentare le contee americane testimoni di violenza. Sulla superficie metallica sono incisi i nomi delle vittime, per riflettere e non dimenticare.
Non a caso la città che ospita il memoriale, Montgomery, è quella in cui Rosa Parks, nel 1955, si rifiutò di alzarsi dal suo posto sul bus per cederlo a un uomo bianco. Da qui, con l’aiuto di Martin Luther King, nel 1956 venne dichiarata incostituzionale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici. Nel 2012 il Presidente Barack Obama, durante la sua campagna elettorale, prese il posto di Rosa sul bus, conservato in un museo in Michigan. Un messaggio simbolico contro l’ingiustizia e il sopruso, declinato in un gesto.
Bastano pochi secondi per prendere una decisione. Che sia premere il grilletto di una pistola, aggredire una persona o offrire il proprio tempo a un’azione trasformante. Spesso le buone azioni creano meno visibilità e scalpore di un gesto distruttivo. Rimangono nascoste, nonostante la loro attuazione sia lenitiva e benefica su larga scala e a lungo andare. Nel presente, però, sono invisibili ai più.
L’invisibilità di cui parlo si verifica per la particolare disposizione degli occhi di coloro coi quali vengo a contatto. Dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali, attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà.
Ne parla lo scrittore Ralph Ellison, nel prologo del suo unico romanzo pluripremiato Invisible Man (1952). La condizione di invisibilità riguarda un giovane uomo afroamericano, le cui ottimistiche speranze per il futuro vengono spente dall’indifferenza di New York. Una metropoli dove le personalità si perdono nella frenesia quotidiana. Ma l’indifferenza di cui racconta Ellison è quella di chi può, ma non vuole vedere. Una forma di violenza razziale data dallo sguardo, più dura, a volte, della violenza fisica.
A dargli una visibilità è il regista e fotografo Gordon Parks, autore degli scatti del dossier-letterario, mai pubblicato, A man becomes invisible (1952). Questo è stato presentato in maniera inedita all’Art Institute di Chicago nel 2016, insieme a un altro dossier, Harlem is everywhere (1948). Entrambi sono dedicati a Parks e ad Ellison e alla loro narrazione della crudezza e violenza di Harlem negli anni ’40. Il quartiere newyorkese era stato sede negli anni Venti e Trenta del movimento culturale afroamericano Harlem Reinassance.
Un crogiolo di vitalità artistica, politica e sociale, spentosi negli anni successivi con la Grande Depressione e il degradare di Harlem verso la povertà, l’abbandono e la violenza. Un nucleo di anime in fuga dal Ku Klux Klan e dalle leggi segregazioniste del Sud, che speravano di trovare libertà e accettazione dalla metropoli. Ma qui li attende l’eterno circolo vizioso di violenza razziale e indifferenza.
Due dei motivi che hanno spinto i Black Lives Matter a far sentire la loro voce a sostegno delle due mostre dell’Art Institute di Chicago. Queste sono frutto della collaborazione tra la Gordon Parks Foundation e la Library of Congress di Washington. Scopo della Fondazione è quello di preservare e sostenere il pensiero di Gordon Parks, attraverso una cerchia di seguaci che portino avanti attività artistiche e culturali.
Tra di questi c’è il fotografo Devin Allen, con la sua Leica testimone diretto degli eventi degli ultimi giorni. Allen racconta la massa attiva tra le strade, la ferma determinazione tra i cartelli che portano il nome di George Floyd. I suoi protagonisti sono volti, visti al di sopra di un obiettivo fotografico e non di un grilletto. Visi immortalati per rendere omaggio alla volontà di azione, alla giustizia, contro la violenza e l’indifferenza.
Un gesto che dall’artista si può estendere allo spettatore. Così ieri è stata la giornata che ha consacrato l’iniziativa #blackouttuesday. L’idea è partita dal settore artistico-musicale, con l’intento di non pubblicare contenuti sui media per dare spazio alle proteste attuali negli Stati Uniti. Da lì è diventato un simbolo comunicativo universale, esteso a chiunque volesse lanciare un messaggio contro il razzismo, l’abuso di potere e l’ingiustizia.
Un messaggio come quelli che lancia tutti i giorni Allen, testimoniando la quotidianità in tutte le sue angolature. Per chi guarda e chi agisce, per chi ascolta e chi racconta, in modo che nulla rimanga invisibile. Così i suoi scatti in bianco e nero riflettono i dipinti di Kara Walker. L’artista dipinge silhouette nere su sfondo bianco in una contrapposizione cromatica che ha un retrogusto politico. Taglia simbolicamente due sfumature di una stessa condizione umana in un’immagine che non può passare inosservata.
Così emerge tutta la violenza razziale dalle teste nere mozzate su corpi di cigni bianchi. La violenza comunicativa diventa reazione alla violenza oppressiva. Sarebbe bello se tutto si estinguesse in un’armonia cromatica. Il giusto equilibrio di sfumature etniche, sociali e caratteriali in un dipinto policromatico, come quelli di William Johnson. Nonostante la storia sembri involvere nel suo fare recidivo, l’arte e la comunicazione possono trasformare la violenza subita in violenza espressiva e creativa. Fino al punto in cui la seconda potrà sopravvivere senza la prima.