Il peso della coscienza. Volontà e dovere nella distopia di Karin Boye

Una tragedia che ha tutte le premesse per avverarsi. Una profezia che nel suo essere surreale trascina i lettori a considerarla viva, più vicina a noi di quanto lo vorremmo. La distopia mette in scena le paure più grandi dell’umanità: il sopravvento del male, la disfatta della terra, la fine di ogni sentimento umano.

Quando la scrittrice svedese Karin Boye scriveva il suo ultimo romanzo Kallocain – l’anno era il 1940 – era reduce da una duplice disillusione: il viaggio nell’Unione Sovietica del 1928 contagiò i suoi ideali politici e la sua fiducia nell’umanità, mentre la serie di sedute psicanalitiche, da lei affrontata nel 1932 a Berlino, la spinse ad accettare la sua realtà di donna omosessuale in un mondo che ancora condannava l’omosessualità come una malattia ed un reato. Karin visse gli ultimi anni della sua vita insieme alla compagna Margit, cercando in Svezia un riparo dalle persecuzioni razziali dei nazisti – Margit era ebrea – e trovando consolazione purtroppo soltanto nel gesto estremo del suicidio.

L’incubo che lei stessa stava vivendo venne a prendere forma in Kallocaina, la storia di Leo Kall, un chimico al servizio di uno dei due Stati totalitari che si spartiscono il mondo. La realtà è militarizzata e collettivizzata, il tutto chiaramente in funzione dello Stato – la distopia si basa su modelli europei già affermati, come Noi del russo Zamjatin (1924) e Il mondo nuovo di Huxley (1932).

L’incredibile novità di Boye consiste però nel visualizzare il mondo distopico con gli occhi di un cittadino leale, che farebbe tutto ciò che è nelle sue capacità per soddisfare lo Stato. Ancora di più, Leo Kall trova un senso alla sua vita dedicando il suo tempo e le sue conoscenze in chimica alla creazione di una sostanza che faccia emergere la verità dalle persone. Egli è un fanatico dello Stato, il suo sogno è di smascherare i traditori della patria. Non è incaricato da nessuno, in quella che si rivelerà essere un’avventura quasi suicida, bensì spinto dalla sua sola volontà. Si considera un fiero membro della collettività, che vive in funzione di una legge che sovrasta il buon senso e l’empatia. E così come lui, diversi cittadini si ritrovano a mettere in dubbio il loro amore per la famiglia, denunciando i propri cari. D’altronde, il motto dello Stato è: “Nessuno può esserne sicuro! Chi ti sta accanto può essere un traditore!”.

I trattamenti con la kallocaina, una droga che legge la sfera più intima del paziente, i suoi pensieri e le sue emozioni, fanno emergere in Kall un sentimento paradossale: dall’inizio ben conscio dell’esistenza di traditori, egli sviluppa con il tempo un senso di colpa. Il suo processo di maturazione migliora attraverso il suo rapporto con la moglie Linda e il collega di lavoro Rissen, tra i quali lui stesso teme una relazione. L’uomo di scienza, mosso da sani principi, si ritrova a provare un’ardente e autodistruttrice gelosia, che finirà per farlo impazzire. Quanta giustizia e quanta morale concorrono nella tentazione di utilizzare la droga su sua moglie? Leo Kall cede, esattamente come sarebbe successo ad un qualsiasi essere umano, e il matrimonio perfetto tra lui e Linda prende una brutta piega.

“Non esiste alcuna ragione, esiste soltanto la solitudine“, così Linda, devastata e ferita, guarda in faccia suo marito come se stesse guardando la fine del suo mondo. La necessità di scegliere tra due poli opposti: la famiglia, ovvero il legame di sangue, la possibilità di lasciarsi andare al libero pensiero all’interno della sfera intima di casa, e dall’altra parte lo Stato, che pretende una fiducia innaturale in un mondo che promette soltanto distruzione, e che porta l’individuo a disumanizzarsi: spno queste le due direzioni verso cui si dirige il personaggio all’interno della distopia.

La convinzione di far parte di qualcosa di più grande di un piccolo nucleo famigliare porta il chimico Kall a scambiare il concetto di dovere con quello di volontà. Il suo sogno di primeggiare tra i membri della comunità entra in collisione con la lotta silenziosa del resto del popolo per la sopravvivenza. Non esiste una buona ragione per desiderare la fine del mondo. Esistono solamente tragici momenti in cui guardare in faccia la realtà che si autodistrugge. Ma accorgersi della realtà vuol dire per Leo tornare indietro sui propri passi, quando ormai è troppo tardi.

Ci sono mondi indesiderabili destinati a realizzarsi e personaggi che vendono la loro umanità per un poco di gloria. Vivere in una distopia significa far convivere i propri sogni con gli incubi degli altri.

FONTI

K. Boye, Kallocaina

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