La pittura di Leonora Carrington (1917-2011), sebbene (e poiché) resista ad ogni forma di classificazione, si presenta come una brillante espressione di eclettismo e assorbenza, dottrina e intuizione, brillantezza e spugnosità culturale.
La pittrice viene spesso associata al movimento surrealista. Ma Leonora era una lettrice troppo svogliata delle opere di Freud e troppo indisposta verso l’ideale della donna-Musa per poter fare dei sogni un terreno d’indagine contemplativa, della sua femminilità una forma ancora rigidamente tradizionale. La sua amicizia con Paul Éluard e André Breton, il suo amore giovanile per Max Ernst e il suo ricorso allo strumento e al contenuto onirico, non giustificano quella che, in un mondo lontano dal Surrealismo, è la ricerca di una magia primordiale, della mitologia primitiva, di una coscienza aurorale che dà luogo a un “realismo” corporeo che poco ha a che fare con l’allucinazione e il rimando inconscio.
“Realismo” sembra una connotazione adeguata per l’opera di Carrington. Ma neanche l’altra etichetta che spesso le viene attribuita, quella di “realismo magico”, ci convince del tutto. Non sono infatti gli scenari incantati della pittrice ad emanare uno straniante senso di “realtà”, ma le oscure evocazioni spiritiche e le angoscianti rivelazioni autobiografiche. Le memorie inquiete di un passato paludato, ormai irremovibile e sempre vivo – nelle stanze del sogno e nelle evocazioni della simbologia – sotto forma di cancrena spirituale, morbo psicologico, malocchio.
Un realismo della dispersione
Non è nostro interesse ripercorrere tutte le tappe e i complessi intrecci della vita di Carrington – figlia ribelle di una coppia di nouveaux riches dell’industria tessile britannica, fuggitiva per amore di Max Ernst, delusa in amore e fortuna a seguito dei drammi della Seconda Guerra Mondiale, figlia adottiva del Messico, campionessa di un nascente femminismo americano.
Tutta la vita di Carrington – da quelle che sembrerebbero le tappe più insulse fino a quelle più significative – si mescola in un amalgama di magia e pathos, simbolismo ed eros. Le figure fantastiche e stregate della mitologia Maya, della tradizione cabalistica e della favola europea danno vita a un florilegio di universi singolari, microcosmi ogni volta originali, ogni volta incorniciati in un mondo a parte, che sembrano legare la creatività di Carrington alla produzione di “mondi possibili”, di spazio-tempi favolosi o di universi quantistici, di dimensioni inesplorate e coordinate aliene. Quella di Carrington è una vera e propria produzione, la fabbricazione di realtà, non solo le allucinazioni dell’onirismo.
Parliamo, infatti, di un realismo della dispersione. Come in Adieu Ammenotep (1960), le figure sono miniature quasi immobili (come se “volontariamente” immobili), ma capaci, a differenza del miniaturismo medioevale, di esprimere una gestualità priva di significazioni specifiche o rimandi universali. Si tratta di una dispersione, di un trionfo della contingenza. È, per un verso, l’incontro tra la Carrington miniaturista e la Carrington onirista. Si tratta di produrre ed esplorare mondi contingenti al fine di decifrare l’infinita complessità del mondo interiore.
E così il padre, la madre, i figli, le emozioni, i traumi saranno talvolta un dio, un animale, una chimera, un demone, un’ombra. Ma non si pensi, tuttavia, che la distinzione tra un mondo interno ed uno esteriore sia chiara e netta. Tutt’altro, dal momento che la moltiplicazione dei mondi e il libero gioco maieutico stanno a significare uno sconsolato misticismo, una ricerca spirituale angosciata che culmina nella tensione verso una forma di panpsichismo, per il quale tutto è vivo e tutto ha un’anima, molte anime, infinite coscienze.
La Dea Bianca e l’Uovo
Nel multiverso naturalista di Carrington è forte l’influenza di Robert Graves, che nel 1948 teorizzò la figura ancestrale di una Dea Bianca, una sorta di Madre Terra venerata in tempi antichi e progressivamente scalzata dalla cultura patriarcale, che sostituì nel tempo quell’originario monoteismo matriarcale con le figure e i valori di divinità maschili. La Dea Bianca genera la natura e la nutre, e il libero realismo di Carrington ne fa una custode di valori primordiali: la femminilità del mondo, la sua accoglienza incondizionata, che si associa, nel femminismo di questa donna e artista di metà Novecento, alle forze invisibili e rigogliose della maternità.
Ciò che minaccia la vita (la vita psichica di Carrington, la vita dei popoli in guerra, la vita ecologica della Terra) è ciò che minaccia di turbare o arrestare i liberi flussi della maternità. Il cosmo, l’ordine del tutto, è spesso presentato come un Uovo: il piccolo e fragile custode del tutto, di tutto ciò che fluisce e diviene, l’origine di tutto ciò che è venerabile e quindi ciò che c’è di più venerabile.
L’Uovo è presentato talvolta come figura luminosa, al centro di nature rigogliose e atmosfere di vita, talvolta al centro di paesaggi spettrali, stanze buie e infestate. La sorte dell’Uovo è quella del mondo in questione, uno degli svariati mondi – i quali, in fondo, sono sempre il nostro. La Madre di tutte le cose, che essa stessa è tutte le cose, soffre la persecuzione di una minaccia perenne, impossibile da decifrare a pieno (la guerra? l’apocalisse? la malattia? il tradimento?), ma che sicuramente trova una sua culminante compiutezza in una vicenda della vita di Carrington e nelle sue conseguenze artistiche.
Il sanatorio
Dopo l’arresto di Max Ernst da parte della Gestapo, Carrington, devastata dagli avvenimenti, partì per la Spagna con un amico, finché, per via del suo crollo psicologico e tradita dalle persone vicine, fu rinchiusa in un sanatorio a Santander, in cui rimase per un anno. La spettralità dell’opera successiva a questi avvenimenti è spesso dovuta al richiamo ai soprusi, alle torture e alle umiliazioni subite nella sua inspiegabile e mai accettata detenzione.
In quadri come Down Below (1941, a cui seguiranno delle omonime memorie scritte nel 1944) convergono e si confondono i temi della sensualità, dell’abbandono e dell’incertezza, si percepiscono il dolore dell’elettroshock, il vaneggiamento da narcotici, l’abuso sessuale.
La fiaba, il gioco e la dispersione bucolica – che hanno in fondo sempre contenuto un seme di spettralità, un’atmosfera alienante e a tratti macabra – ora non si perdono, ma lasciano accentuare e diventare protagonisti gli aspetti più oscuri di quel disagio che minaccia la vita, di quelle spaccature, di quelle nebbie e di quegli zombie che avvelenano la libera gioiosità della vita e inacidiscono le fantasie mortali, la coscienza umana.
Il cavallo
A dominare l’opera di Carrington è la figura del cavallo, il suo spirito guida fino almeno dalla relazione con Ernst. È forse questa la figura più variegata, complessa e misteriosa dell’opera dell’artista, emblematica ed esemplificativa, nella sua ambiguità, delle dinamiche di quella complessa fabbrica di mondi possibili. La complessità estetica e simbolica dell’opera di Carrington potrebbe essere condotta a partire dalle strane ricorrenze dei suoi cavalli. Essi sono vita? Impulso? Ira? Controllo? Nobilità? Fiducia? Ricordo? Ricorrenze oniriche? Sogni di liberazione?
Interrogarsi sul significato di quei cavalli, di quelle uova e di quei mostri significherebbe speculare sull’intrinseca anomalia del sogno. Tentare di spogliare di quella elegante e discreta vaghezza il realismo di Carrington significherebbe riportare alla coscienza le assurde formazioni oniriche, risollevare l’inconscio al piano dell’io: un’ambizione, una sottigliezza tradizionalmente psicoanalitica verso cui l’artista non dimostra il minimo interesse. Non c’è modo migliore di violare le opere di Carrington che intellettualizzando la loro diretta, organica, fulminea espressione – che probabilmente rimane più a suo agio al livello della mera impressione.
Grida
L’opera di Leonora Carrington ricorda quella di Francis Bacon, uno dei più grandi pittori del secolo scorso, altrettanto impossibile da categorizzare stilisticamente e altrettanto imprigionato in un’angosciosa dialettica tra libertà e spettralità, tra gioco e terrore. Il pittore irlandese affermava di voler dipingere il “grido”, piuttosto che l’”orrore”. Invece che a rappresentare il diagramma dell’angoscia, Bacon aspirava a cogliere il principio informe dell’abisso, l’irrappresentabile per eccellenza, l’essenza primordiale del sentimento di morte. Carrington, fabbricando universi fantastici e dando vita concreta ai demoni del sogno, proiettava su tela il grido di una ribellione al mondo.
L’opera di Carrington – da leggersi nelle sue impressioni più immediate e nelle ambizioni comunicative più dirette – è una condanna a tutto ciò che soffoca la vita, è un’indagine su ciò che, oscuro e indecifrabile, minaccia il flusso della natura talvolta sotto forma di istituzione, talvolta come ideologia, stereotipo, pregiudizio, malevolenza, oppressione culturale. Le figure isolate, “volontariamente” immobili, quasi fluttuanti, oscillanti tra il bi e il tridimensionale, lasciano emergere le volontà pacifiche di una natura materna e le grida spettrali di una minaccia incombente.