“The Velvet Underground and Nico”: dal giorno in cui il genio della Pop Art ha incontrato il poeta dell’Alternative rock a uno degli album più iconici di tutti i tempi

New York. Metà degli anni Sessanta. Andy Warhol e Lou Reed. Luogo, anni e protagonisti e il rebus ha la sua soluzione. Dalle strade fumose della città, alle catene immense di grattacieli. Le continue lotte antirazziali da un lato, dall’altro il boom economico. Sono tutte facce di una stessa medaglia. Si aggiungano poi l’arte, la letteratura, le dipendenze, la sessualità libera e la musica, tantissima musica, e lo sfondo è tracciato.

Insomma, tutti gli ingredienti per raccontare qualcosa di sorprendente e unico ci sono. Non vi sentite già in un quadro pop?

Silver boys: Warhol, Lou Reed e la Factory

Per un momento chiudete gli occhi e immaginate di tornare indietro nel tempo, fino al 1965. Pensate di essere americani e di percorrere la quarantasettesima strada, a Midtown, Manhattan. Ad un certo punto, alzando gli occhi, verrete sicuramente rapiti dal fascino di un grande e signorile edificio, al cui interno, proprio mentre voi state passando, si anima la Factory.

Si chiamava così lo studio di Andy Warhol, anche se limitarsi a questa definizione sarebbe troppo riduttivo. Si trattava, piuttosto, di un mondo glam-rock argentato, in cui l’arte si fondeva con la musica, e dove nascevano non solo le più famose opere della Pop Art, ma anche le personalità che hanno maggiormente condizionato quegli stessi anni.

Si sono incontrati così – se non con una tale sequenza, quantomeno con la stessa casualità  – Andy Warhol, artista che al tempo era già conosciuto e apprezzato da molti, e Lou Reed, un ragazzotto di Long Island, fresco di laurea in letteratura inglese alla Syracuse, che proprio allora iniziava a muovere i suoi primi passi nella musica.

Dai primi eventi alla svolta

Nell’estate del 1965, Reed mette insieme ufficialmente la sua prima vera band. La scelta di chiamarsi Velvet Underground va ricondotta alla pubblicazione, in quello stesso periodo, di un libro omonimo, scritto dal giornalista Micheal Leigh. Così si uniscono John Cale, polistrumentista e compositore, Sterling Morrison, vecchio amico di Lou Reed, alla chitarra, e Angus Mac Lee alle percussioni. Ma questi, dopo aver rifiutato i primi ingaggi retribuiti della band, verrà sostituito da Maureen “Moe” Tucker, sorella di un amico del chitarrista.

Con i primi concerti, i quattro girano moltissimi locali newyorkesi, ma è solo verso la fine dello stesso anno che arriva l’evento decisivo, quello che cambierà per sempre il loro destino di band. L’11 dicembre del 1965, infatti, si esibiscono al Café Bizare, nel Greenwich Village. Alla serata sono presenti alcuni protagonisti della Factory, tra cui il regista Paul Morrissey, assiduo frequentatore della studio e collaboratore di Warhol.

Un manager sui generis

Anche in una città enorme come New York, le voci corrono velocissime. I Velvet Underground, grazie alla spinta di Morrisey, entrano ufficialmente nella Factory. Andy Warhol ne è entusiasta e decide che da lì in avanti sarà lui il loro manager.

Inutile dire quanto questo episodio abbia mutato il futuro di Lou Reed e degli altri musicisti, trasportandoli in un mondo completamente nuovo.  Ogni cosa, adesso, gioca un ruolo fondamentale: Warhol ha le giuste conoscenze, e soprattutto un’idea chiara su come condurre la band al successo.

In effetti, l’artista consiglia subito a Lou Reed di ingaggiare come cantante Nico, l’attrice e modella di origini tedesche, il cui vero nome è Christa Päffgen. Con lei, i Velvet Undeground iniziano ad esibirsi in diversi spettacoli organizzati dallo stesso Warhol. Tra tutti, il memorabile Exploding Plastic Inevitable: un pot-pourri di cinema, arte e musica, tra psichedelia e pratiche sadomaso.

Come nasce un’opera d’arte

Dalle serate, Warhol porta la band a firmare il primo vero e proprio contratto con una casa discografica, la Verve Records. La collaborazione vede nel giro di un anno la nascita di un album che, sebbene all’epoca abbia ricevuto una tiepida accoglienza da parte del pubblico, ancora oggi è tra i migliori dischi di tutti i tempi. Così, il 12 marzo 1967 esce ufficialmente The Velvet Underground & Nico.

Lou Reed, insieme a Nico e agli altri componenti, realizza quella che è un’opera d’arte musicale senza precedenti. La sapiente mescolanza di generi, dal rock classico a quello più alternativo, dal punk al pop passando per i suoni tribali, rende il disco un capolavoro. A dare man forte a tutto ciò, ci sono i tre singoli interpretati da Nico, Femme Fatale, I’ll Be Your Mirror e All Tomorrow’s Parties, la canzone preferita da Warhol.

Undici tracce e una banana possono cambiare la storia

Parlare dell’album come di un oggetto d’arte, al pari di una scultura o di un quadro, è probabilmente l’accezione più azzeccata per descrivere The Velvet Undeground & Nico. Di sicuro, ad ognuno di voi sarà capitato da qualche parte di vedere l’immagine della copertina del disco nelle sue forme più svariate. Persino su qualche tovaglietta plastificata da colazione. La famosa banana disegnata da Andy Warhol è ovunque ed ha contribuito ancor di più a rendere immortali il disco e i suoi protagonisti.

Nella prima edizione, la copertina mostrava unicamente il disegno di Warhol, insieme alla sua firma, e non c’è traccia né del nome della band né tantomeno di quello dell’album. Ma a stupire di più è sicuramente un’altra cosa. Il frutto, rappresentato in perfetto stile pop, giallo con i contorni neri, poteva essere letteralmente sbucciato. Peel slowly and see: l’invito è evidente. Rimuovendo semplicemente un adesivo, infatti, l’ignaro spettatore vedeva comparire una banana rosa, esplicito riferimento fallico.

Canzoni iconiche e provocazioni

Dunque, è chiaro che attraverso quest’album i Velvet Underground hanno fatto centro. D’altronde, quando si mettono insieme due geni dell’arte, non può che derivarne qualcosa di eccezionale e irripetibile. Uno di quei dischi nati non con lo scopo di vendere più copie possibili – cosa che comunque avverrà, soprattutto con il passare degli anni – ma al contrario con la volontà di trasmettere una vera e propria cultura musicale e generazionale.

Dentro ogni canzone sono mescolate tematiche complesse e di certo non semplici da descrivere, soprattutto in quegli anni. I messaggi trasmessi sono potenti e scottanti allo stesso tempo. A partire dalla famosissima Sunday Morning, che dietro il suo sound delicato e leggero, quasi da ballad, nasconde le conseguenze sopraggiunte dopo una notte di abuso di droghe. Come anche la più esplicita Heroin, spietata descrizione della tossicodipendenza. Fino ad arrivare a Venus In Furs, rilettura dell’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch.

Un universo da scoprire, unico e oscuro, come lo sono d’altronde i suoi stessi creatori, Lou Reed e Andy Warhol. Non ci resta allora che lasciarci trasportare da alcune tra le tracce più famose dell’album, che, al pari del mare, dietro l’apparente leggerezza delle note, nascondono il turbinio delle emozioni e delle complessità incontrate nella vita, alle quali a volte non è possibile sfuggire.


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