Non avete mai letto il libro, ma la sua traduzione

La globalizzazione è ormai estesa ad ogni campo della nostra vita, e così la letteratura non ne ha potuto prescindere: al giorno d’oggi possiamo parlare di una letteratura globale, in cui le opere circolano, ma soprattutto vengono tradotte. La traduzione è infatti essenziale per l’esistenza stessa di tale mercato, ma a volte altera il significato originale dell’opera.

Secondo Lawrence Venuti infatti – docente e teorico della traduzione, di cui ho recentemente seguito una conferenza in Statale – la «world litterature» non sarebbe attualmente basata sul messaggio dei testi originali, quanto su coloro che ne dovranno usufruire nella cultura ricevente. Il traduttore non farebbe dunque un’opera di semplice trascrizione, ma di localizzazione del testo cercando di renderlo più accessibile al proprio destinatario.

Questo concetto in realtà viene applicato anche al cinema e in tv del resto il doppiaggio è traduzione – in cui nella versione italiana spesso e volentieri vengono cambiati riferimenti a personaggi/vicende/luoghi popolari con altri che sono considerati più conosciuti al pubblico italiano, per motivi evidenti. A tale livello però la localizzazione non intacca di moltissimo il senso dell’opera.

Ciò che dà una vera e propria chiave di lettura dell’opera tradotta sono invece le scelte lessicali e verbali del traduttore, che a volte esplicita ed enfatizza, o anticipa implicitamente quello che lo scrittore avrebbe reso noto solo dopo. Tale tipologia di traduzione ci restituisce dunque un’opera completamente diversa dall’originale, che non tiene conto della storia della lingua né a volte del contesto culturale d’origine. Per questo Venuti sostiene che il traduttore dovrebbe dunque essere affiancato da studiosi umanistici – miei cari colleghi di Lettere c’è un futuro lavoro che ci aspetta! – che possano guidarlo nelle scelte linguistiche.

E poi ancora la chiave di lettura non è solo limitata al testo, quanto alla letteratura d’origine in toto. In Italia ad esempio circa il 60% della produzione editoriale è composta da traduzioni – la maggior parte da testi anglofoni – ma questa percentuale non rappresenta la totalità della letteratura tradotta, quanto una selezione fattane. Ciò implica che anche la scelta dei testi delinea quella che è la nostra concezione di una cultura. La nostra cultura tende per esempio a trovare i canoni nelle altre, e così possiamo vedere un picco di traduzioni di Hemingway e Bukowski, mentre quella americana tende a non tradurre in generale, con una percentuale di opere tradotte pubblicate che si attesta al 6% circa del totale.

Dovremmo dunque imparare ad analizzare un testo tradotto non come se fosse l’opera originale, ma come un’opera a sè stante, la traduzione appunto. Questa infatti è spesso parziale e selettiva nella scelta. La situazione ideale sarebbe quella del bilinguismo, ma siccome ciò non è sempre possibile, forse è il caso di cambiare tipologia di traduzione, o approccio all’opera tradotta.

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