La crisi umanitaria dei migranti in Bosnia

Uomini in fila indiana in un bosco ghiacciato. Battono i denti, si stringono nelle loro felpe e giacche logore mentre aspettano di poter riempire un bottiglione d’acqua. In Bosnia, a Velika Kladuša, a soli quarantacinque minuti di cammino dal confine croato, migliaia di migranti, che vivono in condizioni disumane ormai da mesi, stanno cercando di superare l’inverno balcanico, abbandonati al freddo.

La Bosnia ed Erzegovina è una delle ultime tappe della lunga rotta migratoria balcanica, percorsa, per la maggior parte, da afgani, pakistani e siriani intenti a raggiungere l’Unione Europea, in particolare Germania, Francia e Italia. Questa tratta ha assunto un ruolo centrale dal 2018, tanto che i dati documentano che in tre anni vi hanno transitato più di 65.000 persone. Ma proprio il superamento del confine croato, che è fortemente presidiato dalle forze di sicurezza di Zagabria, diventa una vera e propria impresa che si risolve, spesso, in un fallimento. Così molti tra uomini e donne restano bloccati in Bosnia, in attesa della prossima occasione per entrare in territorio europeo. Attualmente si stimano circa 9.000 migranti presenti nel Paese balcanico, ma solamente poco più di 6.000 sono registrati nei cinque campi ufficiali in attività. Gli altri vivono, abbandonati dalle autorità, in rifugi di fortuna, spesso edifici semi distrutti, boschi o campi profughi allestiti dalle diverse organizzazioni umanitarie impegnate sul territorio. Una situazione disumana che costringe a vivere nella sporcizia, senza bagni, elettricità o acqua potabile.

Tutto è peggiorato, inoltre, a causa della riduzione delle strutture per l’accoglienza rese disponibili dal governo di Sarajevo: il campo di Bira è stato chiuso dall’amministrazione locale e mai sostituito, mentre quello di Lipa è rimasto seriamente danneggiato in seguito ad un incendio nel dicembre 2020. La mancanza di strutture adeguate, che siano cioè dotate di bagni con fognature, fonti di riscaldamento e controlli medici regolari, rende il problema estremamente difficile da risolvere. L’unica risposta delle istituzioni, attualmente, è stata allestire un campo di emergenza composto di ventiquattro tende da trenta posti ciascuna e bagni chimici, iniziativa che, ovviamente, non può disinnescare una situazione che resta tristemente esplosiva. I pasti e le cure essenziali vengono fornite principalmente da organizzazioni internazionali, come la Croce Rossa, ma le condizioni di vita dei migranti alle porte dell’Europa continuano ad essere inaccettabili.

Attraversare i confini è pericoloso e spesso si rischia non solo di essere respinti, ma anche di subire furti, violenze e denigrazioni. Il Border violence monitoring network (BVMN) e il Danish Refugee Council (DRC) monitorano da anni gli avvenimenti sul confine croato-bosniaco e i dati non sono positivi: a fronte di migliaia di respingimenti, spesso caratterizzati dall’uso della violenza e delle armi, il 59% dei soggetti ha dichiarato di aver subito abusi fisici, oltre l’80% di esser stato privato di oggetti di propria proprietà, tra cui soldi, scarpe, vestiti o cellulari. Chi torna ai campi di fortuna senza queste pochi oggetti, essenziali per resistere al viaggio, deve affrontare nuovi problemi, un calvario che dall’Asia all’Europa sembra non trovare pace. Secondo i dati del DRC, inerenti a novembre 2020, ben il 9,5% dei rifugiati sono minori, sia al seguito delle proprie famiglie, sia abbandonati a loro stessi: sono loro i primi a soffrire delle privazioni subite e dell’indifferenza delle istituzioni, tanto che la scomparsa dei minori non accompagnati rappresenta, sia nel Mediterraneo che nei Balcani, un enorme problema morale e pratico.

Come, purtroppo, accade in questi casi, le responsabilità vengono continuamente rimbalzate tra enti e governi che avrebbero il potere di intervenire. L’Unione Europea accusa il governo di Sarajevo di non curarsi adeguatamente della questione, spendendo male i fondi destinati appositamente dalla Commissione europea: recentemente, infatti, la Commissione ha stanziato ben 3,5 milioni di euro destinati alla Bosnia per poterla aiutare nella gestione degli irregolari, fondi che si aggiungono ai complessivi 88 milioni di euro che Sarajevo ha ricevuto sino dal 2018 dalle istituzioni europee per affrontare il tema. A fronte di tali ingenti investimenti europei, però, le soluzioni stentano ad arrivare. Da parte sua, il governo bosniaco si difende dichiarandosi incapace di arginare una tale crisi umanitaria, incalzato inoltre dallo scontento popolare e dalle amministrazioni locali che bloccano i progetti della capitale.

Le soluzioni per risolvere la situazione contingente di Velika Kladuša non sono né economicamente proibitive, tanto che i fondi europei sono già disponibili, né difficilmente realizzabili, ma manca la volontà di porre fine al supplizio cui sono soggetti i migranti: per Peter van der Auweraert della Organizzazione internazionale delle migrazioni, occorrerebbe semplicemente riaprire le strutture di Bira e Ciljuge, già attrezzate e ora inutilizzate, che dispongono di circa 2.400 posti. La questione è, quindi, tutta politica, giocata sulla vita di persone innocenti. Si preferisce lasciare delle famiglie a venti gradi sottozero piuttosto che cambiare la propria opinione.

Eppure nemmeno la soluzione europea sembra convincente. Dalla Siria alla Turchia, sino ai campi ghiacciati in Bosnia, è evidente che il finanziamento di Paesi di confine, spesso poveri, disorganizzati, con enormi problemi interni e non rispettosi dei diritti umani, non funziona. Scegliere di pagare altri per gestire, o non-gestire stando ai fatti, un problema che fingiamo di non vedere, non porta nessun risultato positivo ma solo sofferenze e sprechi di risorse. Gli stati devono, uniti oggi anche dalla comune necessità di far fronte alla pandemia globale, cooperare affinché l’Unione Europea, guidata dalla Commissione e dalle altre istituzioni, possa avere una politica estera efficace e comune, una risposta condivisa e fattuale alla crisi migratoria. Una risposta che, ad oggi, ancora manca e, lungi dal favorire un sentimento filo-europeista, rischia sempre più di favorire soluzioni strettamente territoriali, inadatte a confrontarsi efficacemente con problemi di caratura mondiale.

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