Uomini in fila indiana in un bosco ghiacciato. Battono i denti, si stringono nelle loro felpe e giacche logore mentre aspettano di poter riempire un bottiglione d’acqua. In Bosnia, a Velika Kladuša, a soli quarantacinque minuti di cammino dal confine croato, migliaia di migranti, che vivono in condizioni disumane ormai da mesi, stanno cercando di superare l’inverno balcanico, abbandonati al freddo.
Tutto è peggiorato, inoltre, a causa della riduzione delle strutture per l’accoglienza rese disponibili dal governo di Sarajevo: il campo di Bira è stato chiuso dall’amministrazione locale e mai sostituito, mentre quello di Lipa è rimasto seriamente danneggiato in seguito ad un incendio nel dicembre 2020. La mancanza di strutture adeguate, che siano cioè dotate di bagni con fognature, fonti di riscaldamento e controlli medici regolari, rende il problema estremamente difficile da risolvere. L’unica risposta delle istituzioni, attualmente, è stata allestire un campo di emergenza composto di ventiquattro tende da trenta posti ciascuna e bagni chimici, iniziativa che, ovviamente, non può disinnescare una situazione che resta tristemente esplosiva. I pasti e le cure essenziali vengono fornite principalmente da organizzazioni internazionali, come la Croce Rossa, ma le condizioni di vita dei migranti alle porte dell’Europa continuano ad essere inaccettabili.
Attraversare i confini è pericoloso e spesso si rischia non solo di essere respinti, ma anche di subire furti, violenze e denigrazioni. Il Border violence monitoring network (BVMN) e il Danish Refugee Council (DRC) monitorano da anni gli avvenimenti sul confine croato-bosniaco e i dati non sono positivi: a fronte di migliaia di respingimenti, spesso caratterizzati dall’uso della violenza e delle armi, il 59% dei soggetti ha dichiarato di aver subito abusi fisici, oltre l’80% di esser stato privato di oggetti di propria proprietà, tra cui soldi, scarpe, vestiti o cellulari. Chi torna ai campi di fortuna senza queste pochi oggetti, essenziali per resistere al viaggio, deve affrontare nuovi problemi, un calvario che dall’Asia all’Europa sembra non trovare pace. Secondo i dati del DRC, inerenti a novembre 2020, ben il 9,5% dei rifugiati sono minori, sia al seguito delle proprie famiglie, sia abbandonati a loro stessi: sono loro i primi a soffrire delle privazioni subite e dell’indifferenza delle istituzioni, tanto che la scomparsa dei minori non accompagnati rappresenta, sia nel Mediterraneo che nei Balcani, un enorme problema morale e pratico.
Le soluzioni per risolvere la situazione contingente di Velika Kladuša non sono né economicamente proibitive, tanto che i fondi europei sono già disponibili, né difficilmente realizzabili, ma manca la volontà di porre fine al supplizio cui sono soggetti i migranti: per Peter van der Auweraert della Organizzazione internazionale delle migrazioni, occorrerebbe semplicemente riaprire le strutture di Bira e Ciljuge, già attrezzate e ora inutilizzate, che dispongono di circa 2.400 posti. La questione è, quindi, tutta politica, giocata sulla vita di persone innocenti. Si preferisce lasciare delle famiglie a venti gradi sottozero piuttosto che cambiare la propria opinione.
Eppure nemmeno la soluzione europea sembra convincente. Dalla Siria alla Turchia, sino ai campi ghiacciati in Bosnia, è evidente che il finanziamento di Paesi di confine, spesso poveri, disorganizzati, con enormi problemi interni e non rispettosi dei diritti umani, non funziona. Scegliere di pagare altri per gestire, o non-gestire stando ai fatti, un problema che fingiamo di non vedere, non porta nessun risultato positivo ma solo sofferenze e sprechi di risorse. Gli stati devono, uniti oggi anche dalla comune necessità di far fronte alla pandemia globale, cooperare affinché l’Unione Europea, guidata dalla Commissione e dalle altre istituzioni, possa avere una politica estera efficace e comune, una risposta condivisa e fattuale alla crisi migratoria. Una risposta che, ad oggi, ancora manca e, lungi dal favorire un sentimento filo-europeista, rischia sempre più di favorire soluzioni strettamente territoriali, inadatte a confrontarsi efficacemente con problemi di caratura mondiale.