Settimana scorsa il caso islandese ha fatto notizia su tutti i giornali dopo che i primi rapporti sulle elezioni parlamentari di sabato 25 settembre suggerivano che il Paese avesse eletto il primo Parlamento nazionale a maggioranza femminile nella storia europea. Ma le celebrazioni sono durate per un breve tempo, prima che un riconteggio producesse un risultato appena al di sotto di quel punto di riferimento per la parità di genere nella nazione.
I cittadini islandesi hanno votato per eleggere i nuovi membri della loro legislatura da 63 seggi e i risultati riportati inizialmente indicavano un totale di 33 donne elette. Tuttavia, un successivo riconteggio dei voti ha fissato il numero di donne elette al parlamento islandese a 30, lasciando gli uomini in maggioranza, un conteggio precedentemente raggiunto alle seconde elezioni più recenti in Islanda, nel 2016. Questo cambiamento fa sì che tre donne lascino il parlamento e vengano sostituite da uomini.
È infatti emerso in seguito dall’emittente pubblica RUV, che comunica i risultati elettorali in veste ufficiale, che una manciata di voti era stata conteggiata male, influenzando la distribuzione dei cosiddetti seggi “compensativi”. Il cambiamento non influisce sulla distribuzione complessiva dei seggi, in cui i tre partiti del governo di coalizione uscente guidato dal primo ministro Katrin Jakobsdottir hanno vinto un totale di 37 seggi, due in più rispetto alle ultime elezioni, che sembravano perciò destinati a rimanere al potere.
Il significato che può avere per le donne
Inizialmente, l’apparente maggioranza femminile in Parlamento è stata salutata come un cambiamento storico. “In una luce storica e internazionale, la notizia più significativa è che le donne sono ora la prima volta in maggioranza nel parlamento islandese, e la prima in Europa. Questa è una buona notizia”, ha detto il presidente Gudni Johannesson all’emittente RUV prima del riconteggio. Tuttavia, la presenza femminile a quasi il 48% del totale è la più alta per le donne legislatrici in Europa, anche se a differenza di alcuni paesi non esiste una legislazione che stabilisca la percentuale di donne in parlamento, sebbene alcuni partiti richiedano un numero minimo di donne nella candidatura.
L’Islanda è stata a lungo in prima linea nella battaglia per l’uguaglianza di genere ed è ormai proprio in cima alla lista dell’uguaglianza di genere del Consiglio economico mondiale per dodici anni consecutivi. La situazione dell’Islanda difatti ha sempre attirato l’attenzione da parte di tutto il mondo. I genitori dei bambini, per esempio, hanno sempre diritto al congedo di maternità, la prima legge sulla parità retributiva di genere risale al 1961 ed è stato il primo Paese al mondo ad eleggere un presidente donna nel 1980. Una delle donne elette sabato sera in Parlamento è Lenya Rún Taha Karim, ma ha solo 21 anni ed è la più giovane parlamentare nella storia del Paese.
Solo altri cinque paesi al mondo hanno una maggioranza di donne in Parlamento: il Ruanda per primo, Cuba con il 53%, Nicaragua con il 50,6% e Messico ed Emirati Arabi Uniti con il 50%. Al contrario, finora nessun Paese europeo è riuscito a superare la soglia del 50%. Vicina ci è arrivata la Svezia con il 47% di deputate donne, seguita da Andorra (46%), Spagna (44%), Svizzera (41,5%) e Norvegia (41,4%). In Italia, invece, tra Palazzo Madama e Montecitorio le donne si fermano al 35,7%.
Parlamento islandese, perché ci riguarda
Quelli dell’Islanda sono comunque numeri incoraggianti per quanto riguarda la parità di genere in politica, soprattutto se si pensa al fatto che l’Islanda non ha un sistema di “quote rosa”. Quest’anno sono state elette donne diverse donne nei partiti di centro e di destra, anche se sono le formazioni di sinistra ad aver determinato il risultato finale: i socialdemocratici hanno eletto 4 donne su sei, Sinistra Verde 5 parlamentari su 8, i “pirati” 3 su 6. Tutte e tre le formazioni hanno perso una deputata ciascuna nel riconteggio.
Ma mentre paesi come l’Islanda si stanno avvicinando a un Parlamento a maggioranza femminile, quando in Italia si tratta di avere una rappresentanza femminile nei più alti organi decisionali dei partiti politici si può notare come le donne elette in Parlamento in realtà siano davvero poche rispetto a tutte coloro che si sono candidate. L’ascesa dell’empowerment politico femminile in Italia ha più i connotati di una salita in termini di difficoltà, proprio perché non avviene con la spontaneità di una società aperta a sostanziali valori di eguaglianza di genere in ogni ambito, ma con il supporto di leggi che agiscono all’interno di un contesto in cui la donna è ancora troppo spesso penalizzata.
L’Italia è infatti anni luce rispetto a paesi come l’Islanda o la Svezia, caso esemplare ne è la politica siciliana con i recenti dati sulle elezioni amministrative. A fronte dei 134 candidati sindaco che partiti e liste civiche hanno presentato per le elezioni, che interesseranno 42 Comuni dell’Isola, soltanto 19 sono donne, appena il 14%. Sono dunque i numeri a parlare, un magro bottino se si pensa alle rassicurazioni dei partiti più rappresentativi a livello nazionale e regionale in merito all’intenzione di puntare maggiormente sulle amministratrici donne soprattutto in base a un processo meritocratico.
Dove sono tutte quante?
Nonostante le promesse e le rassicurazioni, questa valorizzazione della meritocrazia sembra premiare quasi sempre gli uomini, e se sono sempre le donne a rimetterci, allora c’è forse qualcosa che non va. Questo non è stato sicuramente l’anno del cambiamento, almeno per l’Italia. Dati i numeri attualmente sul tavolo, per esempio, solo il 7,5 per cento dei Comuni della Sicilia è amministrato da una donna, la percentuale penultima in Italia dopo la Campania.