Il jiḥād non è quello che pensiamo / parte 1

Jiḥād, jiḥādismo, mujaḥeddin. Sono termini con cui purtroppo abbiamo imparato a familiarizzare, causa la bruta violenza di chi la proclama e la combatte. Non ultima la strage di Dacca, di cui sono rimaste vittime alcuni nostri connazionali. Ma chi  combatte in nome della jiḥād – da cui mujaḥeddin, “colui che conduce il jiḥād”– perché lo fa? Su che basi dice di uccidere donne, anziani, bambini e (sic!) musulmani per obbedire ai precetti della “guerra santa” predicata dal Corano? I nostri media diffondono da anni la traduzione di jiḥād con “guerra santa”. Ma tale traduzione rispecchia il concetto di guerra e di santità nel mondo musulmano arabofono? Oggi ci occupiamo del perché il jiḥād non ha a che fare unicamente con l’idea di guerra.

1. Non è (solo) guerra
Il termine arabo per guerra – come fa notare
Paolo Branca, noto arabista italiano – è in realtà ḥarb, che nei secoli dell’espansione musulmana (VII-X) marcava il discrimine fra territorio non musulmano (dār al-ḥarb, ‘casa della guerra’) e il territorio già soggetto al dominio dei califfi (dār al-Islām). Il significato di jiḥād nel Corano è plurivoco e non ha a che fare con il campo semantico della guerra in senso stretto, anche se non si può negare che presenti in determinati passi un significato affine a quello di ‘lotta violenta’.

Nelle sure cosiddette ”meccane”, ascritte al periodo compreso tra la rivelazione del Corano da parte dell’arcangelo Gabriele a Maometto nel 610 fino alla sua emigrazione (Egira) dalla Mecca a Medina (15-16 luglio 622), il termine jiḥād assume per lo più il significato di sforzo. Lo sforzo più grande (jiḥād akbar) è per un credente il mantenimento di una vita coerente con i principi dell’Islam. È quindi un jiḥād interiore. Diversa invece è la situazione per cosiddette sure ”medinesi’’.

REVELATION

2. La comunità di Medina e la violenza del jiḥād

Non si può però asserire che il Corano sia irenisticamente inteso come un libro di pace, secondo l’esperto di filosofia islamica Massimo Campanini. Esso contiene indubbiamente pagine che incitano al jiḥād aṣrar (più piccolo), che consiste nel combattere gli infedeli. E chi sono questi infedeli (kāfirūn)? I familiari dei membri della prima comunità islamica di Medina, che spesso cercavano di dissuadere i propri cari dall’impegno totalizzante nella nuova religione, che li portava a combattere non solo contro i familiari contrari all’Islam, contro sangue del proprio sangue – ma anche contro ebrei e cristiani, che rifiutavano l’autorità politica, e non religiosa, di Maometto.

Il valore aggregante ma anche divisivo della religione non è però inaudito per gli altri monoteismi. Se rammentiamo le parole del Vangelo secondo Matteo abbiamo una chiave di lettura nitida: Sono venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera.” Chi fuggiva da Medina senza combattere, fuggiva dunque dall’Islam. Non deve meravigliare se la valenza sociale dell’Islam come comunità (Umma), rinsaldatasi in tali circostanze di assedio di Medina, prevedesse la guerra come collante sociale. Ricordiamo come Maometto fosse a capo di una comunità non solo religiosa ma anche sociale e politica come quella della città di Medina.

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Nasr Hamid Abu Zayd (1943 – 2010), teologo e accademico egiziano.

3. Tra una nuova ermeneutica e il jiḥādismo

Negli ultimi decenni l’esegesi coranica musulmana ha portato in dote due figure come quelle di Mahmud Muhammad Taha e Nasr Hamid Abu Zayd (foto), che hanno ipotizzato la validità del jiḥād nell’Arabia del VII secolo, in quanto proprio di quella società, e pertanto rifiutato di decontestualizzare i versetti coranici critici che incitano all’uccisione degli infedeli. Di più, anche l’idea di stato islamico dei tempi di Maometto – al-Baghdadi, ci senti? – non sarebbe applicabile perché nata in un contesto culturale altro da quello odierno. Queste idee non furono però ben accette nel mondo musulmano. Taha fu giustiziato nel 1985 in Sudan e Nasr Hamid Abu Zayd fu costretto a fuggire nel 1995 nei Paesi Bassi dall’Egitto dopo una condanna per apostasia.

Qualcosa però pare gradualmente muoversi in direzione di un nuovo rapporto della fede islamica verso il testo coranico, almeno in Italia. Secondo le parole stesse del presidente dell’UCOII Izzedin Elzir, il mondo musulmano sembra gradualmente incamminarsi sulla strada di un’ermeneutica del testo coranico che lo spogli da possibili strumentalizzazioni integraliste e fondamentalismi a uso e consumo dell’al-Qaeda o ISIS di turno. A noi occidentali, memori dell’esempio della Bibbia – in cui non mancano i passi violenti – e della sua interpretazione storico-critica, il diritto-dovere di accompagnarli e sostenerli in questo cammino.

Credits:

Di MrPenguin20 [Public domain], attraverso Wikimedia Commons (1); mondimedievali.net (2); ”Nasr Hamid Abu Zayd 3/4”, Youtube.com , screenshot (3)

Fonti:

Paolo Branca, Introduzione all’Islam, Il Mulino, 2011.

Massimo Campanini, Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo, La Scuola, 2015.

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