Il clickbait: la pratica per cui chiunque sui social -testate giornalistiche, pagine, canali, politici, influencer– può attirare più attenzione ed engagement tramite titoli volutamente farlocchi e sensazionalistici. Esagerare, enfatizzare un piccolo contenuto della storia, raccontare mezze verità, distorcere i fatti… sono solo alcune delle metodologie che permettono di ottenere quei famosi “15 minuti di fama”.
Il clickbait
Il termine clickbait è traducibile in italiano con “esca per click”: la flebile curiosità iniziale del lettore viene dapprima amplificata, poi manipolata e, infine, trasformata in un click che genera traffico (e, di conseguenza, introiti pubblicitari o vantaggi in termini di visibilità).
Il principio è sempre lo stesso: stimolare un’emozione forte, spesso negativa, per aumentare la probabilità che il contenuto venga cliccato, commentato e condiviso. Si fa leva sul dolore, sull’indignazione, sulla paura e si distorcono, in maniera lucida e voluta, le notizie di cronaca, rendendole casi mediatici.
L’aspetto più grave è che non si tratta, come detto, di un meccanismo raro o relegato in determinati angoli del web. Anzi, da diverso tempo sono soprattutto le testate giornalistiche (che dovrebbero incarnare, invece, i canali più autorevoli) a farne un utilizzo spropositato, a contaminare la qualità dell’informazione.
L’approccio degli users: come reagisce l’utente finale?
Il comportamento degli utenti finali amplifica di molto il problema. Sempre più spesso si tende a commentare e condividere un articolo in seguito a una mera lettura del titolo, senza leggerne il contenuto e senza verificarne le fonti.
È sufficiente una frase ad effetto per generare una reazione; basta un contenuto ben confezionato -magari pubblicato nel momento giusto- per scatenare una tempesta virale sui social media.
Il caso più recente: la sentenza di Filippo Turetta
Una vicenda tragica, che avrebbe meritato un approccio giornalistico sobrio e rispettoso, è stata invece cannibalizzata non solo dalla spettacolarizzazione e dalla pornografia del dolore, ma anche dalla macchina del clickbait.
In seguito alla recentissima sentenza di primo grado che condanna all’ergastolo Filippo Turetta (colpevole di aver ucciso Giulia Cecchettin), i social sono stati invasi da titoli urlati, informazioni incomplete e narrazioni fuorvianti, che hanno concorso a generare un caos mediatico privo di fondamento e che, a suo modo, ha più confuso che chiarito. Un circo dell’informazione che, a discapito della verità e del rispetto per le vittime, ha moltiplicato visualizzazioni e interazioni, in maniera tale da poter inseguire il tanto designato profitto.
La sentenza in primo grado
Partiamo dall’inizio: la condanna di Filippo Turetta -in primo grado (è importante specificarlo, in un sistema che prevede due gradi di giudizio e un terzo in Cassazione)- è stata quella dell’ergastolo con 4 aggravanti: premeditazione, futili motivi, occultamento di cadavere ed efferatezza. Quest’ultima è fondamentale, perché è quella che si basa realmente sull’elemento quantitativo che ha tanto scatenato i social: le 75 coltellate.
L’ergastolo, di per sé, è una pena disciplinata dall’Articolo 576 del Codice Penale:
“Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’articolo precedente è commesso:
col concorso di taluna delle circostanze indicate nel numero 2 dell’Articolo 61.”
Ed è proprio quest’ultimo -l’Articolo 61 del Codice Penale– a disciplinare le circostanze aggravanti comuni, cioè quelle che aggravano il reato.
Tuttavia, è davvero complicato scovare un articolo di giornale che parli delle aggravanti che hanno permesso alla Corte di Assise di Venezia di condannare Filippo Turetta all’ergastolo. Quasi tutte citano, invece, le due che non sono state riconosciute: lo stalking e la crudeltà.
Lo stalking
La prima aggravante inizialmente contestata a Filippo Turetta (se ne parlava già a dicembre 2024), legata al reato di stalking (Art. 612-bis c.p.), è decaduta in fase processuale. Nel periodo immediatamente successivo alla fine della relazione tra Giulia Cecchettin e Filippo Turetta -secondo l’accusa-, quest’ultimo avrebbe messo in atto un controllo ossessivo, tale da causare in Giulia uno stato di ansia, paura e turbamento. Tuttavia, analizzando le prove -tra cui testimonianze dei familiari, conversazioni in chat e il comportamento stesso di Giulia- non sono emersi segnali concreti che dimostrassero un vero e proprio stato di paura o un cambiamento radicale delle sue abitudini di vita.
Il padre e il fratello della vittima, ad esempio, hanno descritto una Giulia infastidita, sì, ma non spaventata. Anche dalle chat è emerso che, pur avendo compreso l’ossessione di Turetta, Giulia non ne percepiva la pericolosità e continuava, anzi, a comportarsi in modo indipendente. Era stata lei stessa, tra l’altro, a proporgli di accompagnarla a fare acquisti per la laurea.
La Corte ha quindi respinto l’argomento della Procura, secondo cui Giulia sarebbe stata costretta a mantenere certi rapporti e abitudini. Il concetto di “alterazione delle abitudini di vita -spiegano i giudici- implica un cambiamento evidente e forzato, non il semplice fatto di continuare a tollerare certe dinamiche”.
Dalla sentenza:
“Giulia Cecchettin era ben consapevole sia della insensatezza delle pretese del Turetta sia del carattere manipolatorio delle affermazioni autolesionistiche di costui e si è visto come ella non si fosse piegata a tali pretese: e proprio per questo è stata uccisa”.
La crudeltà
La Corte, poi, ha escluso anche l’aggravante della crudeltà (art.61 comma 4 c.p.). E da qui è emersa una vera e propria insurrezione sui social.


I due esempi qui di sopra sono quelli più lampanti, quelli che fanno leva su un principio fondamentale: è molto probabile che gli articolisti de LaRepubblica sappiano cosa significa “crudeltà” in ambito giuridico (ma abbiano ugualmente puntato sul clickbait accostando la stessa alla semantica), ma è ancor più certo che lo sappia il Vicepresidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana Matteo Salvini.
Questi due titoli recitano che, secondo i giudici, “Filippo Turetta non sarebbe stato crudele, ma inesperto”. Prendiamo, innanzitutto, l’Articolo 61 citato poco sopra:
“Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali […] le circostanze seguenti:
[…]
l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone.”
Prendiamo, poi, la sentenza (a pag.130):
“Non si ritiene che tale dinamica, come detto certamente efferata, sia stata dettata, in quelle particolari modalità, da una deliberata scelta dell’imputato ma essa sembra invece conseguenza della inesperienza e della inabilità dello stesso: Turetta non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”.
Egli ha dichiarato di essersi fermato quando si è reso conto che aveva colpito l’occhio: “mi ha fatto troppa impressione”, ha dichiarato. Orbene, considerata la dinamica complessiva, come anche registrata dalle videocamere in Fossò, non si ritiene che la coltellata sull’occhio sia stata fatta con la volontà di arrecare scempio o sofferenza aggiuntiva.”
Ciò che a molti sfugge -come spesso accade in circostanze simili- è che il termine “crudeltà”, in ambito strettamente giuridico, non è da intendere in termini etico-morali (anche perché qualsiasi omicidio è, di per sé, crudele). Si tratta, invece, di un’aggravante riconosciuta in quegli omicidi in cui -durante o subito dopo il delitto- l’imputato abbia dimostrato di aver portato avanti delle azioni non finalizzate a uccidere la vittima.
Queste ultime potrebbero essere rappresentate, ad esempio, dal danneggiamento del cadavere post-mortem con fuoco o acido. O ancora, da torture fisiche prolungate nel tempo inflitte coscienziosamente alla vittima ancora in vita.
Cosa c’è di sbagliato?
L’aggravante della crudeltà non è stata sancita l’8 aprile 2025, in concomitanza alla sentenza dell’imputato Turetta; esiste e viene aggiornata sin dalla prima approvazione dell’Articolo 61, cioè dal 1930.
Va da sé che, nel tempo, sia stata applicata -o non- a una moltitudine di casi e di processi, senza passare, però, al di sotto dell’occhio comune. E senza permettere, di par condicio, a una grande quantità di persone di giudicare e sentenziare l’operato di avvocati, giudici e PM.
Le conseguenze di un processo sbagliato
Il motivo principale per cui ogni singola aggravante viene analizzata così a fondo e a lungo è che, nel momento in cui ne viene riconosciuta una “sul filo del rasoio” -com’erano, in questo caso, stalking e crudeltà- il lavoro della difesa diventa molto più facile. Quest’ultima, infatti, può fare ricorso in appello -il secondo grado di giudizio-, impugnando quelle aggravanti che le sembrano deboli e fallaci.
Lo si sta sperimentando proprio in questi giorni, con un altro caso mediatico: quello che vede protagonisti il carnefice Alessandro Impagnatiello e le vittime, Giulia e Thiago Tramontano. La difesa di Impagnatiello ha fatto ricorso contro le aggravanti di crudeltà e premeditazione: sta cercando di evitargli l’ergastolo.
Il trend delle 75 coltellate
Il pubblico, come sempre accade, non si è limitato a commentare la sentenza di pancia. Nei giorni successivi alla stessa, anzi, ha anche contribuito creando un trend decisamente macabro: dapprima con video in cui le persone contavano fino a 75 -per sottolineare quanto sia alto come numero-, poi con video in cui prendevano a pugni -o direttamente a coltellate- dei peluches per 75 volte.
Questo trend è andato subito virale.
Cosa si può fare?
Tutto ciò è sicuramente relegato alla scarsissima soglia di attenzione che sempre più persone dimostrano nell’approccio a qualsiasi notizia. Cadere nei clickbait e lasciarsi trasportare dal sentimento comune sta diventando, più che ironico, patologico. E se prima era un fenomeno relegato maggiormente ai boomers, oggi sempre più giovani evitano la sana informazione.
Diceva Umberto Eco:
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”
Non serve essere assolutisti come Eco. Ma ci si dovrebbe comunque domandare perché, se non ci si è mai approcciati alla materia del diritto penale né ci si è mai barcamenati nella lettura del codice penale, si tende a voler commentare una sentenza e, indipendentemente dal proprio background, giudicare l’operato di chi ha studiato a fondo per ricoprire una carica importante: quella del giudice.
Fonti giuridiche
Fonti di articoli clickbait (esplicitati nelle immagini)
- LaRepubblica – Femminicidio Cecchettin
- Salvini: “imbarazzante e vergognoso”
- I giovani assassini saranno inesperti, ma ciò non li rende meno crudeli
- Immagine di copertina generata da AI